venerdì 31 agosto 2012

Generazione Pinocchio



Sono fermamente convinto del fatto che se oggi dobbiamo fare i conti con una generazione di trenta-quarantenni disperati che non sanno cosa fare della loro esistenza e si aspettano che ci pensi qualcun altro a risolvere il dilemma al posto loro, è anche perché da troppo tempo si è persa l'abitudine di leggere ai bambini "Le Avventure di Pinocchio". Credo sia un po' come sostengono alcuni psichiatri dell'età infantile, secondo i quali se non si leggono le favole ai più piccoli, questi matureranno con estrema difficoltà il discernimento tra bene e male, giusto e sbagliato, buono e cattivo, e finiranno con l'essere adulti a metà. Ecco, allo stesso modo ritengo che non leggendo Pinocchio ai bambini italiani, difficilmente questi, crescendo, diventeranno degli italiani perbene, ma resteranno soltanto degli italiani a metà.

L'importanza di Pinocchio come testo di educazione civica per le nuove generazioni del Bel Paese è immensa. E parlo del capolavoro di Carlo Lorenzini, detto Collodi, e non di quell'accozzaglia di buonismo low-cost, personaggi inventati e sonore puttanate che è il cartoon di Walt Disney (un uomo di cultura come il Collodi non si sarebbe mai sognato di descrivere nel suo libro una balena mangiauomini, e difatti nella versione originale lui parla di un pescecane). Non per farne per forza una colpa a Disney, beninteso: è solo che Pinocchio è una storia tutta italiana. Qualunque traduzione, qualunque adattamento, finirebbe comunque per snaturarla, per farle perdere qualche pezzo, qualche tassello importante del suo straordinario messaggio di fondo.

Quale? Beh, è molto semplice: Pinocchio è la risposta letteraria all'esigenza espressa da Massimo D'Azeglio all'indomani dell'unità d'Italia, «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Che non significava semplicemente costruire un'identità nazionale comune da Torino a Catania, da Venezia a Reggio Calabria, passando per Parma, Firenze, Roma e Napoli. Non significava soltanto far parlare a tutti la stessa lingua, far cantare a tutti lo stesso inno nazionale, far pagare a tutti le stesse tasse. Significava soprattutto insegnare ad un popolo bambino, un popolo neonato, quello italiano, per l'appunto, che per abbandonare l'infanzia e raggiungere l'età adulta bisognava imparare a crescere assumendosi ciascuno le proprie responsabilità.

Al di là dei sotto-messaggi e delle tante storielle collaterali, infatti, dal serpente che muore di ictus per il gran ridere, al meschino Melampo, al giudice scimmione con gli occhiali senzsa lenti, il fils rouge della storia principale è bellissimo:
«Pinocchio, studia. Va' a scuola, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«Va bene, Pinocchio: allora impara un mestiere. Va' in bottega, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«E allora, caro Pinocchio, vattelappiànderculo».

Ed è proprio lì che va Pinocchio, appiàrselanderculo, attraverso un'escalation di proverbiali cetrioli che raggiunge il suo climax subito prima che il burattino-bambino si renda conto di ciò che deve fare per redimersi, e quindi cessa. E arriva la redenzione.

Il bello di Pinocchio è che non ci sono principesse, cavalieri, re, principi, regine, duchi, marchesi, dame o imperatori. È tutto un susseguirsi di personaggi talmente normali dal rasentare la banalità, sia nel bene che nel male. Persino la Fata dai capelli turchini non è il deus ex machina della storia, e molto più dei suoi poteri magici può il ravvedimento di Pinocchio nello scioglimento della vicenda. Non ci sono supereroi né supercattivi proprio perché la forza di Pinocchio sta nella sua normalità, nel fatto che, potenzialmente, tutti quanti potremmo essere un po' Pinocchi, e per tutti quanti c'è la stessa via d'uscita.

Pinocchio somiglia tantissimo ai piagnoni della Generazione Perduta, o di uno qualsiasi dei tanti movimenti che a scadenze regolari riempiono le piazze e le colonne dei giornali di lamentazioni, rivendicazioni, slogan e proteste senza che a nessuno venga mai in mente di fare qualcosa per cambiare davvero. Pinocchio viene al mondo convinto che tutto gli sia dovuto, e subito. Pinocchio sa bene quali sono i suoi diritti, e sa altrettanto bene come evitare di compiere il suo dovere. Pinocchio ha fame ma vuole mangiare solo la polpa delle pere che Geppetto gli offre, schifando le bucce e i torsoli. Pinocchio si sente sempre una spanna davanti agli altri, ma riesce soltanto ad inanellare una sequela di gesti stupidi e sconsiderati. Ma soprattutto, Pinocchio arriva ad uccidere il Grillo perché detesta più di ogni altra cosa che qualcuno più saggio di lui gli faccia notare che sta sbagliando tutto.

Menomale che i miei coetanei brandiscono Twitter al posto del martello.

martedì 28 agosto 2012

Un rutto vale più di mille parole



Dopo i blitz della Guardia di Finanza da Cortina a Portofino, a caccia di ferraristi con lo ski-pass e capitani coraggiosi con vascelli fantasma sconosciuti al fisco, il governo prepara il dispiegamento delle Fiamme Gialle dietro i distributori automatici delle bevande gassate.

Secondo il libretto rosso del governo tecnico, infatti, dopo il male assoluto della ricchezza personale viene quello del girovita abbondante. Chi vuole dissetarsi bevendo Coca-Cola, dunque, deve pagare l’accisa sulle bollicine voluta dal ministro alla Morigeratezza Gastrica, Renato Balduzzi.

E mentre la comunità scientifica si divide sull’impatto sociale della Cedrata Tassoni, i tecnici decretano che l’obesità dilagante è un peso troppo oneroso per le magre casse dello stato, e va arginata senza remore. Senza contare che tutti questi ciccioni in giro in Italia rischiano di farci fare una magra figura con i tedeschi, che giustamente vanno fieri della longilinea silhouette della loro Cancelliera.

Tempi duri anche per le gare di rutti tanto in voga tra i buontemponi sin dai tempi del liceo: da oggi potrebbero costare una verifica fiscale.

venerdì 24 agosto 2012

Klout, ho un disperato bisogno d'amore




Non abbiamo più alibi, ormai. Klout ha definitivamente smascherato la nostra vera natura di navigatori della rete: disperati narcisisti alla ricerca di quei quindici minuti di celebrità che Andy Warhol ci aveva promesso e nessuno aveva mai voluto darci fino all’avvento di Internet.

A sentire i suoi creatori, Klout dovrebbe essere un misuratore di influenza sul web. Attraverso un misterioso algoritmo (così efficiente che, a quanto pare, constringe i suoi programmatori a cambiarlo una volta ogni due giorni), valuta in una scala da 0 a 100 quanto una persona sia considerata in rete. Dove 0 è Giovanni che grida nel deserto e 100 è il jingle del Pulcino Pio. Non basta avere tanti amici su Facebook, migliaia di followers su Twitter, un sacco di spettatori sul canale YouTube per essere uno con la febbre alta su Klout: bisogna “influenzare”, per l’appunto. Ovvero dire, fare e scrivere cose che spinga gli altri a condividerle, a interagire.

La verità, a giudicare dai commenti degli stessi utenti, è che Klout somiglia più a tutt’altro genere di misuratore, tipo quei righelli portati di nascosto in bagno negli anni delle elementari per cimentarsi in una particolarissima competizione sportiva che non si può dire in televisione. Per questo sta facendo impazzire tutti quanti nella rete, compresi quelli che fingono di non badare al proprio livello di notorietà ma, in fondo in fondo, si sentono un po’ dispiaciuti se il loro numerino magico perde qualche colpo. Insomma, ammettiamolo: siamo stati fregati in tutto il nostro irrefrenabile bisogno di attenzione proprio dal software che invece avrebbe dovuto compiacerci mostrandoci tutta l’attenzione di cui godiamo.

E va beh, pazienza. Facciamocene una ragione. Siamo esseri senzienti che vivono nel costante bisogno di essere amati, apprezzati, sostenuti, considerati. Non è un delitto, in fondo, se ogni tanto ci accontentiamo anche di un surrogato del sentimento, o se integriamo con quello gli affetti veri. Klout è soltanto il nostro modo di gridare al mondo: «Ehi, mamma, guarda: senza mani!» anche a trent’anni suonati, con una famiglia, il mutuo da pagare e la ventiquattrore sotto la scrivania.

E allora grazie Klout, ché non ci neghi nemmeno da adulti l’ultimo giro sulla BMX.

giovedì 23 agosto 2012

L'invasione degli ultraPistorius



Una riflessione peregrina (ma forse non troppo, lascio che giudichiate voi) mi ha attraversato la capoccia oggi, leggendo la definizione che Wikipedia fornisce circa le Paralimpiadi. Cito testualmente: «I Giochi Paraolimpici, o Paraolimpiadi, sono l'equivalente dei Giochi olimpici per atleti con disabilità fisiche». A rigor di logica, dunque, Pistorius, in quanto privo degli arti inferiori dal ginocchio in giù, avrebbe dovuto disputare i Giochi Paralimpici, e non i Giochi Olimpici. Che poi il suo essere non soltanto Oscar Pistorius, ma l'icona Pistorius, porti a voler far gareggiare il mito anziché l'uomo, è un altro discorso. Vengo al punto.

Il dato di fatto è che, al di là della semantica, quest'anno l'atleta sudafricano ha disputato le Olimpiadi come un qualunque altro atleta normodotato. Ed è proprio da qui che parte la mia riflessione peregrina. Partendo dai seguenti assunti: 1) la partecipazione di Pistorius alle Olimpiadi ha indubbiamente creato un precedente, e i precedenti, si sa, sono quelle cose che tengono aperta la porta per lasciar entrare la consuetudine; 2) è ormai appurato che le protesi, nonché il fatto che la sua disabilità lo porti a pesare meno dei suoi avversari, lo avvantaggiano rispetto agli altri atleti; ecco che si arriva alla domanda fatidica. Fatidica quanto brutale. Ovvero: quanto tempo dovremo aspettare ancora prima che in qualche nazione totalitaria si arrivi alle mutilazioni volontarie di questo o quell'atleta per creare "superuomini" da medaglia d'oro?

Riflettiamoci bene. Non è poi una possibilità così fantascientifica.

Per decenni, finché si reggeva in piedi il Muro di Berlino, le nazioni del Patto di Varsavia hanno imbottito i loro atleti (e le loro atlete, soprattutto) di qualunque medicinale e/o aiutino chimico potesse contribuire a migliorarne la struttura fisica e le prestazioni in campo. È sufficiente dare un'occhiata alle foto ingiallite degli anni '70-'80 per constatare che molte delle campionesse sovietiche di atletica avevano abbandonato l'ultimo sprazzo della loro femminilità alla voce "sesso" del loro atto di nascita, e per tutto il resto non avevano proprio nulla da invidiare a Primo Carnera. Chissà poi quanti altri paesi hanno fatto di peggio per molto meno, magari anche solo per veder sventolare la propria bandiera durante la cerimonia di apertura e poco più.

Oggi i sospetti sono tutti incentrati sulla Cina e sugli ultimi potentati comunisti che le gravitano attorno (Corea del Nord in primis). Come ha fatto il fu Celeste Impero, che un tempo poteva aspirare tutt'al più alla a laurearsi campione nel ping pong, a trasformarsi nel giro di appena un decennio in una corazzata olimpica tale da far impallidire persino gli Stati Uniti? Magari soltanto con il duro lavoro, una ciotola di riso al giorno e tanta fede nel Partito, si capisce. Però, il tarlo rosicchia.

Chiunque faccia o abbia fatto sport a livello professionistico non avrà difficoltà a confessare, anche se magari a microfoni spenti, che calarsi di tutto e di più facendola franca ai controlli antidoping non è poi una missione impossibile, e che (forse), in paesi nei quali poter operare controlli affidabili rasenta l'utopia, è una missione ancor meno impossibile. Questo non significa che tutti gli atleti siano dei potenziali dopati: significa solo che, come direbbe Obama, si può fare. Chissà quanti medagliati insospettabili, anche occidentali, persino italiani, senza quella particolare pilloletta o quell'iniezione forse avrebbero assistito la premiazione dalla tribuna. Il caso Schwazer insegna: per come ce l'ha raccontata lui, con un po' di sangue freddo in più e un po' di scrupoli in meno forse sarebbe potuto arrivare a Londra e persino piazzarsi senza destare il benché minimo sospetto.

Ma lasciamo da parte le supposizioni, che, proprio come le supposte, sono soltanto subdole insinuazioni. Il punto è: cosa potrebbe effettivamente trattenere le oligarchie di Pyongyang, o di Pechino, o il dittatore dello Stato Libero di Bananas, dal mutilare volontariamente i loro atleti per portarli sul gradino più alto del podio grazie a protesi sempre migliori, sempre più leggere, sempre più performanti? Magari, anzi, quasi sicuramente con il consenso dell'atleta stesso, disposto a sacrificare un arto, due, o magari tutti, per portare maggior onore e gloria alla propria nazione, o anche solo per portare un briciolo di benessere e sicurezza economica in più a sé e ai propri cari, diventando un eroe in patria e un campione olimpico davanti agli occhi del mondo.

Siamo sicuri che il gioco non varrebbe la candela? Oggi no di certo, visto che l'unica medaglia ottenuta da Pistorius è stata quella al coraggio, alla determinazione e alla simpatia. Ma immaginiamo che fra qualche anno la tecnologia prostetica faccia così tanti passi avanti che nemmeno uno come Usain Bolt riesca a reggerne i ritmi. Immaginate che non si possano sostituire soltanto gli arti inferiori, ma magari anche gli arti inferiori, oppure, perché no?, persino gli occhi (penso ad arcieri e tiratori vari), con protesi in grado di magnificare le prestazioni ben più di quanto non facciano già ora i piedi in carbonio di Pistorius. Non serve un gran sforzo di immaginazione, visto che i ritmi serrati cui il progresso scientifico degli ultimi decenni ci ha abituati non dovrebbero ormai farci stupire di nulla. Bene. Pensate che se esistono persone disposte a mutilare (o a farsi mutilare) solo per far spillare qualche goccia di pietà in più dai questuanti per strada, non potrebbero esistere regimi o governi che non si farebbero scrupoli davanti alla possibilità di fare cappotto nel medagliere olimpico? Io no, sinceramente.

E quindi aspetto. Aspetto che succeda davvero. Perché per quanto mi riguarda ormai si tratta solo di una questione di tempo. Non così poco perché se ne parli ai giochi di Rio, forse, ma, chissà?, a quelli del 2020.

Benvenuti nel conto alla rovescia più agghiacciante nella storia dello sport.

mercoledì 22 agosto 2012

Giustizia sportiva: le coliche finali



Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima sotto forma di tragedia, la seconda sotto forma di farsa. Probabilmente, se il padre del socialismo avesse conosciuto come funziona la giustizia sportiva italiana, si sarebbe dovuto ricredere: qui quando la storia si ripete è sempre e solo come farsa.

Emblematico, in questo senso, il caso dell’allenatore juventino Antonio Conte, condannato in primo grado a 10 mesi di squalifica per omessa denuncia di presunte combine nei match Novara-Siena e Albinoleffe-Siena, quando ancora Conte allenava i bianconeri toscani. Il tutto sulla base esclusiva di accuse mosse dall’ex calciatore e sedicente “pentito” Filippo Carobbio. Accuse, tra l’altro, mai verificate dai fatti, prive di un qualsivoglia appiglio probatorio, e per giunta smentite da tutti gli altri giocatori senesi che avevano sempre sollevato Mr. Conte da qualsiasi responsabilità. Ciononostante, per la giustizia sportiva italiana, che funziona un po’ come i vecchi tribunali della Santa Inquisizione, l’onere della prova ricade sull’accusato, e non sull’accusatore. Basta che qualcuno punti il dito, insomma, per finire in guai molto seri. Così, secondo i giudici di primo grado, l’allenatore juventino, con il suo piglio così dirigista e autoritario, «non poteva non sapere» quello che si stava tramando negli spogliatoi. E tanto era bastato per spiccare una sentenza di condanna.

Ma questo, della farsa, è stato soltanto il primo atto. Il secondo si è registrato stamani, con la lettura della sentenza d’appello: «La Corte di Giustizia Federale presieduta da Gerardo Mastrandrea ha accolto 5 ricorsi di club e tesserati, in alcuni casi parzialmente, contro le sentenze di primo grado emesse dalla Commissione Disciplinare Nazionale in relazione ai filoni del calcio scommesse relativi alle inchieste condotte dalle Procure di Bari e Cremona. Per effetto delle decisioni (...) è stata parzialmente riformata la decisione su Antonio Conte, prosciolto per la gara Novara-Siena, ma squalificato per 10 mesi in relazione ad Albinoleffe-Siena con una rideterminazione della sanzione rispetto alla decisione della Commissione Disciplinare». In poche parole, pur dimezzando l’impianto accusatorio a carico di Conte rispetto al primo grado, ne ha mantenuto il peso della sanzione finale. Raddoppiando, di fatto, la pena per l’unico dei due illeciti contestati rimasto in piedi.

Mister Conte se ne faccia una ragione: la giustizia sportiva in Italia non esiste. Inutile dunque strapparsi i capelli riconquistati con così tanta fatica. Se però esiste una giustizia divina, o per lo meno un destino beffardo a sufficienza da rendere la pariglia alla beffa di una sentenza delirante, potrà tornare a sedere sulla panchina della sua Juventus giusto in tempo per disputarsi la finale di Champions League.

martedì 21 agosto 2012

Il diavolo veste Prada, il vescovo veste Armani, e tu rosichi perché compri soltanto all'Oviesse



Avesse regalato un bel saccoccione svolazzante a qualche barbuto imam della periferia di Milano sarebbe diventato il nuovo eroe della falange radical chic italiota, quella che nemmeno sotto l'ombrellone mette da parte il vecchio hobby di insegnare agli altri come fare beneficenza con i propri soldi. Invece, lo sprovveduto Giorgio Armani ha commesso l'imperdonabile errore di mettere la sua opera a servizio del vescovo di Mazara del Vallo, realizzando alcuni paramenti sacri per la nuova chiesa di Pantelleria.

Apriti cielo. Su Ripubblica, evidentemente in astinenza da foto del culo di Rihanna, e le multiformi scaglie della falange dell'informazione libbbera è stato subito un profluvio di articolesse sprezzanti sull'attaccamento della Chiesa Cattolica a Mammona, allo sterco del demonio e alle laute prebende. Insomma, la solita tiritera di mangiapreti atei agnostici razionalisti decaffeinati con più latte e meno cacao che non esitano un solo istante ad insegnare la teologia alle formiche, solo per il gusto di salire in cattedra.

Perché lo scandalo, signore e signori, è che Sua Eccellenza avrebbe espressamente richiesto al noto stilista piacentino di contribuire con una donazione in favore della diocesi. E lui, facendo per l'appunto lo stilista, e non l'ingegnere, l'architetto o il decoratore d'interni, ha confezionato una tonaca e un set di manutergi vari. Come direbbe il mio caro amico James Hetfield, «so fuckin' what?». O, per chi preferisse la straripante allegria di Giggi er Ricottaro, «e 'sti cazzi nun ce lo metti?».

Rifolrmulo per i più lenti di comprendonio. Un vescovo chiede ad un esponente di spicco di una comunità una donazione per la chiesa, e questo risponde all'invito dando fondo gratuitamente alla propria arte e al proprio talento. Ora fatemi capire: cosa c'è di tanto sbagliato, di tanto scandaloso, di tanto deprecabile? Avesse usato quei soldi (quali, tra l'altro?) per realizzare una casa di accoglienza per gli immigrati africani con i quali in spiaggia tirate sul prezzo per poter sfoggiare alla bocciofila un falso Armani con 10 euro anziché con i 30 che vi chiede, ai vostri occhi sarebbe apparso un uomo migliore, non è vero? O forse avreste potuto suggerirgli almeno altri 100 modi alternativi per soddisfare la VOSTRA coscienza con i SUOI soldi, magari adottando una mezza dozzina di beagle di Green Hill.

Chi può vedere il male in un gesto di generosità, sono i soliti difensori d'ufficio di quel pauperismo d'accatto della Chiesa, quello che dal Concilio Vaticano II in poi ha fatto sì che i luoghi di culto non fossero più gli scrigni della devozione popolare, testimoniata attraverso l'arte e il bello, ma orrendi casermoni consacrati che farebbero ribrezzo persino al gestore di un'autorimessa o di un bowling. È vero che Dio sta in cielo, in terra e in ogni luogo, ma che qualche moralizzatore a mezzo servizio debba impartire urbi et orbi il decalogo della carità cristiana non sta né in cielo né in terra.

Fosse stato per questi imbecilli, convinti di servire meglio Dio spogliandone le case, non avremmo avuto i gioielli del Rinascimento e del Barocco, non avremmo avuto Michelangelo, Caravaggio e Juvarra, e gli unici motivi per visitare l'Italia sarebbero soltanto qualche vestigia romana e l'imponente quantità di gnocca che si raduna ogni estate all'Acquafan di Riccione. Senza nulla togliere ar Colosseo e alla patata, credo saremmo molto più poveri e insignificanti.

Perché la Chiesa non deve essere ricca soltanto per poter fare meglio l'elemosina come, dove e quando piace a voi. Elemosina che tanto i detrattori continuerebbero a disprezzare comunque, dal momento che ritengono ogni prete un mangiapane a tradimento a prescindere e ogni porporato un dittatore in sottana.

Rifletteteci bene, la prossima volta che entrerete in una chiesa, se non altro per prendere un po' di fresco e sfuggire all'insistenza della zingarella che vi chiede un euro. Osservate bene i fronzoli dorati, scolpiti, decorati, cesellati, dipinti o intagliati che vi troverete dentro. E forse (ma forse) vi troverete a constatare con un certo disappunto che quei doni degli Armani di ieri (che magari si chiamavano Orsini, o Colonna, o Della Rovere), ma anche il sacrificio di centinaia poveri contadini che si levavano il pane di bocca per un'edicola consacrata alla Vergine o un crocifisso d'argento hanno fatto molto di più per l'umanità di quanto non abbiano fatto i 15 euro mal cagati per la vostra t-shirt di Emergency.

venerdì 17 agosto 2012

Regno Unito contro Assange. Ovvero: come trasformare un ladro di polli in un martire


Il peggior errore che si possa fare quando si combatte una battaglia è trasformare il proprio nemico in un martire. Perché a quel punto non importa più quale siano le ragioni del conflitto, la posta in gioco, gli interessi da difendere, la legittimità di chi attacca. Contro un martire non si può mai vincere. Anche spuntandola, è sempre una vittoria di Pirro: se tutto va bene, si finisce come minimo rovinati.

Ecco perché la battaglia politico-diplomatica della Gran Bretagna contro Julian Assange e i suoi numi tutelari ecuadoregni è da considerarsi un totale fallimento sotto tutti i punti di vista, e qualunque saranno gli esiti finali di questo estenuante (quanto inutile) braccio di ferro. Londra è riuscita persino a far peggio di quanto non abbia fatto Roma per il caso dei due fucilieri del battaglione San Marco sequestrati dalle autorità indiane. E ci voleva del bello e del buono per fare peggio di una diplomazia prona ai dettami dell’avversario, incapace di far valere le proprie ragioni sotto qualunque profilo, e talmente pusillanime da preferire il sacrificio stillicida di due militari ad una non ben definita ragion di stato.

Julian Assange è diventato un martire senza nemmeno essere mai stato un eroe. E non ha fatto certo tutto da solo, anzi. Lui ci ha messo l’idea, e la capacità di saper sfruttare l’onda lunga del fenomeno Anonymous, delle ipotesi di complotto, del web come “tana liberatutti”. Ha solleticato la pancia della gente, anche di quella che di per sé non avrebbe mai creduto ai complotti, ma che trova più consolante crogiolarsi nelle teorie più strampalate piuttosto che affrontare l’orrore (quello sì davvero pauroso) della realtà. Ha costruito, di fatto, un impero mediatico fondato sullo spionaggio e sulla delazione, spiattellando cablogrammi privi di rilievo e spacciandoli per notizie, rivelando i rumor dei diplomatici alla stregua di un tabloid scandalistico, imbarazzando i governi e le diplomazie internazionali, e talvolta mettendo a serio repentaglio non solo operazioni importanti come la lotta al terrorismo internazionale o all’integralismo islamico, ma anche la sicurezza e l’incolumità di migliaia di uomini e donne impegnati sul campo. Assange non ci ha detto nulla che non potessimo già sapere attraverso i canali dell’informazione cosiddetta “ufficiale”, se non informazioni di così infimo rilievo che non rendono certo un mistero il motivo per cui i canali ufficiali le avevano ignorate. E, come se non bastasse, non ha avuto il benché minimo riguardo per le sue fonti riservate, non esitando a scaricarle senza troppo complimenti non appena le cose hanno cominciato a mettersi male, come nel caso del soldato americano Bradley Manning, una delle poche fonti “succose” di Assange, finito davanti alla corte marziale dopo aver rivelato esposto al mondo intero, nemici compresi, le vite di migliaia di suoi commilitoni.

Ma per riuscire a fare di un ciarlatano un eroe, e di qui un martire, serviva solo l’ottusità dei suoi nemici. E di questa, ahinoi, ce n’è stata a bizzeffe. A cominciare dai mezzi di informazione e dal loro peccato d’orgoglio: con la vista annebbiata dall’improvvisa notorietà di Assange, i giornalisti hanno completamente dimenticato il lavoro di tanti onorabilissimi colleghi che hanno trascorso la propria esistenza andando sul serio a caccia di notizie e sono corsi dietro al Pifferaio di Townsville dando eco a qualunque sua esternazione. Dopo di loro sono venuti i governi, troppo indispettiti e impanicati dal fatto che qualcuno fosse andato a rovistare nella loro spazzatura per prendersi la briga di verificare che cosa quel qualcuno avesse effettivamente pescato.

E, si sa, quando si va nel panico, complice forse anche una notevole coda di paglia, si commettono errori madornali. Come quello di perseguitare un soggetto come Assange non per le sue colpe, ovvero quelle di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale, il diritto alla difesa e gli interessi economici di più d’un paese, ma per qualche assurdo cavillo montato ad arte in malo modo, come l’improbabile accusa di stupro in Svezia, una teoria che fa acqua più di un colabrodo. Un parallelismo, anche se un po’ stiracchiato, si potrebbe fare con il caso delle Pussy Riot in Russia: nessuno, salvo forse qualche sedicente intellettuale in cerca di visibilità, si sarebbe mai schierato con una manica di sciacquette pseudofemministe che fanno irruzione in una chiesa per abbaiare qualche “vaffa” a tempo di musica. Ma se le stesse sciampiste di cui sopra vengono sbattute in galera alla stregua dei terroristi ceceni, allora diventa facile scatenare l’indignazione nazionalpopolare. Adesso che la frittata è fatta, non resta che incrociare le dita sperando che i danni siano i più limitati possibili. Alla Gran Bretagna, invece, non resta nemmeno questa speranza, ma solo la più clamorosa figura barbina della storia contemporanea.

Comunque vada a finire, il Regno Unito passerà per lo zimbello delle diplomazie mondiali. Facendo irruzione nella sede diplomatica di Quito a Londra per prelevare Assange, infatti, gli inglesi si abbasseranno agli occhi del mondo alla stregua di uno stato canaglia. Non facendolo, e limitandosi ad abbaiare davanti al portone di quell’appartamento 3B in Hans Crescent 3, verranno ricordati come gli scalcagnati eredi dell’impero vittoriano, che ieri dominavano il mondo e oggi non riescono a farsi consegnare un ladro di polli da una nazione sudamericana con un sesto della loro popolazione, ed un ventesimo del loro Pil.

giovedì 9 agosto 2012

Schwazer, i forconi e la sindrome di Bambi



Il giorno in cui è stata diffusa la notizia che Alex Schwazer, campione olimpico in carica nella 50 km di marcia, era stato squalificato per doping, c'era una fetta consistente di italiani che avrebbe voluto impiccarlo al pennone più alto, manco fosse il pirata Barbanera. Per poi dopo scuoiarlo, metterlo sotto sale, e sacrificarne i resti al dio azteco della guerra Qegakdkjahgsegcachkthsuhavatl. Persino la frangia italiana di Anonymous, che di recente si sta occupando di tutto tranne che di fare il lavoro di Anonymous, e invece mette il becco ovunque manco fosse lo spin doctor di Daniele Capezzone e Alda D'Eusanio, ha voluto firmare a modo suo la firma nel linciaggio mediatico dell'ex eroe decaduto al rango di caccapupù nazionalpopolare.

Il giorno dopo, quello dell'intervista al Tg1, della confessione in eurovisione, delle lacrime e dell'autoflagellazione pubblica, quella stessa fetta di italiani voleva strapazzarlo di coccole come Topo Gigio, e consolarlo a suon di carezzine sul capino biondo e paterne pacche sulle magre spalle scosse dai singhiozzi e dai conati del rimorso. Dal mostro di Rostov a Bambi, nell'arco di 24 scarse.

A questo punto i casi sono due: o sono io che sono strano, cosa che non mi sento di poter escludere a priori, oppure l'opinione pubblica pullula di teste di cazzo. Sta di fatto che dopo due giorni di questa merda proprio non ce la faccio a sopportare anche la terza puntata, quella dello sdegno comprensivo, e della retorica del ragazzo «cinico e ingenuo» (che, se per caso non ve ne foste accorti, equivale per coerenza a definire uno «sionista e antisemita») che oggi anima gli editoriali della stampa buonista e, diciamocelo, anche un po' bigottona.

Che cosa ne penso io? Ammesso che glie ne freghi davvero a qualcuno, penso che Schwazer sia solo un debole. Non un criminale, non un santo, né un peccatore redento. Soltanto un debole. Con tutto ciò che questo comporta. Vi pare poco? Non lo è. Perché Schwazer non ha scelto di fare il panettiere, il postino, il barista o il professore di matematica. Ha scelto di fare lo sportivo. E lo sport è l'ultimo fenomeno umano dove, seppur sotto forma di allegoria, si palesa in tutta la sua magnifica e inarginabile potenza la selezione naturale: i più forti vincono e si prendono tutto, i gregari si accodano al vincitore sul podio per brillare della sua luce riflessa, e per tutti gli altri sono solo lacrime e stridore di denti, fino all'inevitabile trapasso. Metaforico e allegorico, of course, ma pur sempre trapasso. Per farla più semplice: lo sport è competizione, ergo lo sport ai massimi livelli significa competizione ai massimi livelli. E chi non ce la fa, cade.

È brutto? È ingiusto? È politicamente scorretto? È disapprovato dal Moige? Ma per la miseria, è sport. Chi mai si appassionerebbe ad una mammoletta che si lamenta per il male ai piedi o perché gli avversari lo prendono in giro? Chi tiferebbe per il folle che manda all'aria di proposito la gara della vita, fosse anche per una nobile causa come sensibilizzare i tifosi su questo o quel male del pianeta? Santo cielo, persino gli atleti neri americani che protestavano contro la segregazione razziale hanno sollevato il pugno chiuso soltanto una volta sul podio, dopo aver fatto un culo così al resto del mondo, e non prima. PRIMA hanno vinto, e POI hanno protestato. Perché «La gente vuole solo goal», come cantava sacrosantissimamente il profeta Helios. Perché l'importante è sempre stato vincere, alla faccia di quel grandissimo paraculo di De Coubertin, che se gli atleti lo avessero mai preso alla lettera oggi il record dei 100 metri piani lo deterrei io con un minuto e 45 secondi, una cocacola mezza sgasata in una mano, un doppio cheesburger nell'altra, e la mutanda smollata. Per questo un vero campione oltre al fiato, alle gambe (ma a volte non servono nemmeno quelle, Pistorius docet) e al talento deve avere carattere. Quel carattere che ti serve a reggere la pressione della sfida, a sopportare gli sfottò degli avversari, a capire quando è arrivato il momento di spingere al massimo e anche quando invece arriva il momento di dire basta.

Rispetto a tanti altri atleti, Alex Schwazer ha avuto il coraggio di prendersi le sue responsabilità, anche se mi resta il fiero dubbio che non l'abbia raccontata poi proprio tutta giusta. Sostenere che la dinamica che ci ha rifilato in rassegna stampa faccia acqua da tutte le parti, infatti, sarebbe come dire che Platinette non è proprio una donna. Ma vabbé, accontentiamoci della confessione in diretta nazionale così com'è stata. Rispetto a tanti altri atleti, però, Alex Schwazer non ha avuto il coraggio di essere un campione fino in fondo. E quindi A) giocarsi il tutto e per tutto su quel maledetto asfalto, senza aiutini chimici, e salutare la propria carriera venendo ricordato come l'ultimo atleta morto nel tentativo di difendere a tutti i costi un oro olimpico che amava più di se stesso; oppure B) salutare tutti con almeno due mesi abbondanti di anticipo, annunciando il ritiro per manifesta non-ce-la-faccio-più, e facendo un grande in bocca al lupo ai compagni di squadra, "con un grazie particolare al mio allenatore, alla mia fidanzata, alla mia mamma e al mio sponsor che mi sono sempre stati vicini".

Fine della storia.

mercoledì 8 agosto 2012

Sbiancaneve e lo zingaro di Snatch



L'idea di partenza era buona: trasformare una favola pallosa come quella di Biancaneve (una sorta di velina ante-litteram ammantata di una regalità esclusivamente dovuta alla schizofrenica araldica Disneyana, che deve riconquistare il suo regno facendo valere la sua dote più importante, ovvero essere la più figa di tutte, alla faccia delle femministe brutte, basse e pelose che si pettinano come Germano Mosconi) in un bel racconto gothic-noir-splatter-vieniquichetisbudello. Cacchio, l'idea era così buona che persino i Vanzina sarebbero riusciti a cavarne fuori un filmone da Oscar, anche lo avessero infarcito fino alla nausea di scuregge, puppappèra e malimortaccitua vari.

Invece no.

Rupert Sanders (e già da uno che si chiama come l'orsacchiotto di Stewie Griffin bisognava aspettarselo) ne ha sfornato una via di mezzo tra un monologo fuori sinc di Enrico Ghezzi e l'eutanasia praticata con un seghetto da traforo. Siccome menarla per 127 minuti (che sono poi l'equivalente di due ore e un coito medio, eh) con la storia di «Chi è la più bella del reame? Io, no tu, no, io, no lei, muori, no muori tu» era francamente impensabile, questo genio incompreso (persino da se stesso) del regista ha pensato bene di infilarci in mezzo tutte le copiature (pardon, citazioni) possibili e immaginabili da "Il signore degli Anelli", "Le Cronache di Narnia", "Avatar", "Un jeans e una maglietta" (vedasi a questo proposito il fratello della regina cattiva). Senza contare che ci sono più tempi morti in questo film che ne l'Intervallo della Rai con le pecorelle che brucano sul prato e le rovine greche sullo sfondo. Venendo ai dialoghi, c'è da dire che è stato un bel gesto farli scrivere ai ragazzi in riabilitazione dopo un incidente stradale. In fondo è anche con film come questi che si sensibilizza il pubblico sul pericolo delle stragi del sabato sera.

Ma la cosa peggiore (o migliore, a seconda del livello di masochismo del lettore) sono i personaggi. Che ora andremo sinteticamente a descrivere:
- Biancaneve: È la tizia di Twilight (e va beh...), la sua massima aspirazione artistica può essere solo diventare l'Asia Argento californiana, ha la verve recitativa del mio scaldabagno elettrico e la faccia di chi era andata al Sert a ritirare la propria dose di metadone ma purtroppo aveva trovato chiuso. Limona gente a casaccio senza sapere bene il perché, ed esorta gli uomini alla battaglia finale con un monologo che, più che somigliare a quello di Braveheart, come avrebbe voluto, sembra essere la giaculatoria di una beghina durante una messa di trigesima.
- Il Cacciatore: è lo zingaro di Snatch interpretato da Brad Pitt. U-GUA-LE. È sempre ubriaco, si esprime in modo incomprensibile, però non gli piacciono i coni e, quel che è peggio, non ha nemmeno i soldi per vivere in una roulotte.
- La Regina Cattiva: Si chiama Ravenna. E non faccio battute toponomastiche perché ormai le hanno fatte tutti quelli che hanno recensito il film prima di me. Ad ogni modo è una topa stellare anche con le rughe, e il fatto che debba uccidere della gente per rimanere tale e conservare il suo potere non fa altro che confermare quanto lei sia una persona migliore di voi.
- I Sette Nani: A parte che sono otto, ma poi uno muore e mette le cose a posto. Somigliano ad agricoltori del Midwest (manga loro soltanto il berretto della John Deer e le lattine di Bud schiacciate sulla fronte come ostentazione di virilità), si chiamano come agricoltori del Midwest (uno di loro si chiama Gus), parlano come agricoltori del Midwest (mancano solo gli appassionanti monologhi sul granturco), e hanno la vis comica del ministro Giarda quando si gratta le orecchie.

La cosa migliore di tutto il film è che a un certo punto a metà del primo tempo è partito il condizionatore del cinema (il motore di un vecchio B-25 Mitchell residuato bellico della II Guerra Mondiale riadattato alla bisogna) e il rombo ha impedito di comprendere fino in fondo i dialoghi. Ma temo che questo optional non venga offerto da tutte le sale, solo in quella in cui sono andato io. Se proprio dovete scegliere tra investire 7 euro nel biglietto del cinema o andare in ferramenta comprando l'equivalente in viti, consiglio la ferramenta. Anche ingerendole, le viti sono sempre la scelta migliore.

lunedì 6 agosto 2012

La verità è che non ve ne frega un cazzo



Se c'è una cosa peggiore dell'essere parte di una generazione di cialtroni, e quella di essere rappresentati proprio dai più cialtroni di tutti. Ora, non so se voi nelle ultime settimane abbiate messo il naso fuori da quella cassapanca in arte povera all'interno della quale trascinate le vostre inutili esistenze, ma pare che l'attuale primo ministro abbia definito i trentenni italiani «una generazione perduta». Ecco, non si sa se l'abbia detto veramente o se glie l'abbiano solo attribuito, come ormai è prassi consolidata in Italia. Il fatto, però, è che ha maledettamente ragione. Anche se io, al posto di Mario Monti, più che di generazione perduta avrei parlato di generazione di cialtroni. Perché nel mio vocabolario i perduti sono quelli senza speranza, mentre i cialtroni sono quelli che di speranze ne hanno (magari pochissime, ok, ma ne hanno), il problema è che non frega loro un cazzo.

Già, miei piccoli amici trentenni o giù di lì: la verità è che tutto sommato non ve ne frega un beneamato cazzo. Né della laurea, né del lavoro, né di farvi una famiglia. Perché tanto c'è sempre una giustificazione a portata di mano che potrete sventolare davanti al vostro fallimento: la crisi, Berlusconi, Monti, Draghi, le banche, Berlusconi, il terzomondo, Cassano, Berlusconi, i rettiliani, Maria De Filippi, Berlusconi e anche un po' stocazzo. Prova ne sia che quelli che si laureano in tempo mentre contemporaneamente lavorano otto ore al giorno (perché non si iscrivono su Facebook a pagine di zecche frustrate in cerca di assistenzialismo da prima repubblica) si sposano a 26 anni con un lavoro di tutto rispetto e uno stipendio dignitosissimo con il quale potranno realizzare per loro e per i loro figli tutti i desideri che voi potrete solo scrivere sul diario di Poochie.

E poi arrivano quelli di "Generazione perduta". I movimentisti della domenica che si sbracciano per mendicare un briciolo di attenzione spolverando una retorica da Bar dello sport e dicendo che è arrivato il momento di dire basta. A cosa non si sa, l'importante è dire basta. Il presidente del consiglio dice che la loro è una generazione perduta e questi rispondono che non hanno perso, è solo che non hanno ancora cominciato a giocare. Ma Gesù santissimo: hai trentacinque anni, non hai più uno straccio di capello in testa, hai un lavoro di merda e persino l'esistenza dei lemming è più accattivante della tua, e mi vieni a dire che non hai ancora cominciato a giocare? Si può sapere, di grazia, che cosa accidenti aspetti? Che l'arbitro fischi il 90°? O che il presidente del consiglio di cui sopra faccia un favore al mondo, ma soprattutto a me, mandandoti in miniera a grattare il talco a mani nude?

Che poi uno ci prova anche ad essere accomodante con questa manica di imbecilli, e si va a leggere il manifesto. E poi scopre che non solo aveva ragione da vendere ad incazzarsi, ma avrebbe dovuto incazzarsi di più. È tutto un profluvio di "impegnamoci", "prendiamo in mano il nostro destino", "facciamo la nostra parte", "è il nostro momento", e così via. Scusate, anime sante, ma fino ad oggi dove accidenti siete stati? Avete dovuto aspettare le soglie dell'andropausa perché tra la segatura che riempie gli spazi vuoti della vostra scatola cranica si insinuasse il tarlo del dubbio che forse tutti quanti al mondo hanno uno scopo che va ben oltre l'happy hour del venerdì?

Ma andiamo avanti. Perché si parla di merito, meritocrazia e altre cose belle di quel tipo lì. Con una particolarità, però: nel senso che il "merito" così come lo intendono lorsignori è "quella cosa che fa sì che io lavori e abbia uno stipendio, e poi chissenefrega di cosa so fare o quanto sono capace". Eh già. E poi avete anche il coraggio di mettere al primo punto del manifesto che pretendete rispetto. Ma rispetto per che cosa? Perché riuscite a non scoppiarvi a ridere in faccia ogni volta che vi guardate riflessi dentro l'acqua del water?

La verità, signori miei, è che non ve ne è mai fregato un cazzo di nulla, ma vi vergognate come ladri ad ammetterlo. Quando il vostro mojito ha poco ghiaccio o troppa menta sapete farvi valere, ma quando si tratta di cose serie vi sentite in diritto di aspettare che siano gli altri a risolvere i problemi al posto vostro, mentre voi ostentate discese in campo fittizie che durano quanto un post su un blog. Avete più rispetto persino per i beagle di Green Hill che per le vostre battaglie. E tutto sommato non dovreste lamentarvi, visto che nonostante tutto la vostra sorte è immeritatamente migliore della loro.

Quello che mi fa incazzare non è tanto che non abbiate voglia di fare un cazzo e di conseguenza non sappiate fare un cazzo, ma il pensiero che fra dieci anni potrei anche dovervi pagare il Tavernello con i sussidi presi dalle mie tasse.

Ps: Caro lettore, se per caso ti senti offeso da questo post è solo un problema tuo. Quindi non mi scocciare con i tuoi commenti autocommiseranti per spiegarmi che se sei al 19° anno di Scienze della Metempsicosi Coatta è solo perché sei costretto a pagarti da solo gli studi con l'impiego da fermacarte umano nell'azienda di tuo zio.