martedì 17 novembre 2009

Laicità



Laicità,

un elemento imprescindibile

per un'educazione stabile

che punti alla parità


Laicità,

staccare i Cristi dagli intonaci

e poi sbraitare contro i monaci

perché son peggio che a Teheran


Tacciare il conservatore

per ore, per ore, per ore

di avere un pensiero feudale

cultura tardo-medievale

cospargere il clero col cloro

zittirli se dicon la loro

in fondo, per male che vada,

la scusa è "Ci fu Torquemada!"


Laicità,

i Sacri Testi? Tutti apocrifi!

Stupefacenti come oppiacei

di scarsa scientificità


Laicità,

ma che vuol mai 'sto Vaticano?

Incatenare il buon villano

al pio timor di Santità!

sabato 26 settembre 2009

Te la dò io la tele



Voglio solo comprare un televisore.


Non uno stramodernissimo LCD, HD, UDC, PD, PdL, Pepperepè zum zum, ciccì coccò, fante cavallo e re. No, niente di tutto questo. Solo uno di quelli normali, senza troppe pretese, e soprattutto senza un cartellino del prezzo sul quale, per riportare fedelmente tutti gli zeri, occorra andare a capo tre volte. Questo per due ragioni fondamentali. La prima, dipendente dal fatto che tra la mia dichiarazione dei redditi e quella degli eredi di Aristotele Onassis si possono notare almeno venti piccole differenze, come nelle vignette della Settimana Enigmistica. La seconda traente origine dalla volotà di fare dono del televisore a mia nonna, 82enne arzilla e vispa quanto si vuole, ma che con un Sony Turbominchiapower in salotto ricorderebbe fin troppo il celeberrimo Papuasiano di coloniale memoria, quello che andava a caccia con la zagaglia in pugno e una sveglia al collo.


Pertanto mi reco bel bello nel punto vendita di una grande catena di cui, per ragioni legate alla mia allergia congenita alle querele per diffamazione, sviluppata sin dalla tenera età, non potrò qui riportare il nome. Vi posso dire soltanto che comincia per Uni ed ha per desinenza una sconcertante paronimia con una moneta avente tutt'ora corso legale nel Vecchio Continente. E non è la Corona svedese.


Grosso errore. Già soltanto per trovare il reparto tv debbo seguire un corso accelerato di orienteering con i cani da tartufo. Cani che, per inciso, sono disponibili in un pratico dispenser ubicato accanto a quello delle buste di plastica. Per giungere a destinazione, infatti, sono costretto a valicare, uno dopo l'altro, ciaspole ai piedi e barilotto di cordiale a tracolla, espositori stracolmi di asciugacapelli USB, copriwater GPS (utilissimi per sapere, ogni giorno che il buon Dio manda in terra, dove diavolo state cacando in quel preciso momento), spremiagrumi al plasma e lettori digitali di calli e duroni.


Raggiungo alfine la meta, illudendomi di essermi ormai lasciato alle spalle ogni difficoltà. Povero illuso. La mia odissea personale in confezione monouso ha solo incontrato un nuovo inizio. Prima, infatti, devo trovare un modello al tempo stesso pratico (ricordate la nonna?) e non eccessivamente dispendioso (ricordate le venti piccole differenze tra il mio Modello Unico e quello degli eredi Onassis?). Da solo non ci riesco. Ma per fortuna c'è il commesso: "Scusi, buon uomo - faccio io - Di grazia: qui, oltre agli schermi per cinema multisala, vendete anche televisori?". "Certo - replica lui - sono là in fondo". Aggiungendo poi, in cuor suo, "fot...issimo morto di fame". In quella, comprendo che "là in fondo" è la curiosa fraseologia con cui in quella contrada si indica l'angolo acuto del salone compreso tra l'uscita di sicurezza, il magazzino e la porta del cesso riservato allo staff. Molto bene.


Scorro a scalare tutti i cartellini dei prezzi, sino a giungere a quello che mi pare essere più a portata di tasca. Poi torno indietro di un paio, essendomi accorto di aver superato gli espositori delle tv ed ssere passato allo scaffale dei supporti da parete. Ecco perché mi sembravano così convenienti! Adocchio uno schermo 15 pollici, vari cavi per la connessione alla rete elettrica e alla fonte dell'etere, un telecomando ed un bel tasto anvisca/smorta (on/off, per la nonna). Prezzo ragionevole, come solo può essere un pugno sferrato a tradimento alla bocca dello stomaco. "Buongiorno" chioso rivolgendomi al collega del primo commesso. "Vorrei quello lì, per favore". "Un attimo solo - replica egli - Finisco di servire i signori e sono da lei".


"Un attimo", se definisce un'ora e un quarto d'orologio, è un eufemismo. Anche "signori" è un eufemismo, se utilizzato in quella circostanza. Mi superano infatti uno dopo l'altro ondate di tamarri con il jeans a vita bassa e, nonostante trenta e passa anni suonati, la mutanda indossata quasi a voler prevenire un mal di gola, bramosi di collocare nell'andito del proprio bilocale in affitto nella periferia di Vergate sul Membro - per il canone del quale versano già in ritardo di due quote - un maxischermo al plasma da 1098.77 pollici (06, per chi chiama da fuori Roma) che finiranno di pagare a rate solo nel giorno del Giudizio. Il tutto per non perdersi l'impagabile spettacolo di osservare come sotto i vetrini del microscopio i peli del naso di Ibrahimovic dopo che si è smorfellato dal dischetto del Bernabeu per celebrare un sinistro andato a segno contro gli odiati Merengues. Gli stessi che tra sei mesi non potranno comperare ai figli l'apparecchio ortodontico, gli occhiali o i plantari correttivi, e si giustificheranno con la prole più o meno così: "Mi dispiace, Gionatan, c'è la crisi. Comunque tranquillo, con la cintura Cavalli non si nota la zeppola".


Ma io sono arrivato prima, e volevo soltanto un televisore normale. Quello da cento euri cacati, col telecomando al quale manca persino il numero nove, ma che tanto fa lo stesso perché si può cambiare canale con il più e il meno. E avrei anche pagato in contanti, con biglietti freschi freschi di bancomat. Invece niente. Senza la rateizzazione a 36 eoni, 2 ere e 12 evi qui dentro non sei nessuno. Non hai diritto di cittadinanza. Sei un invisibile, eterea presenza cui verrà prestata un'attenzione pari a quella di un peto mollato allo stadio Olimpico.


Alla terza famigliola di MinchiaSabbri che mi passa davanti decido di andarmene. Stanco, deluso e stizzito. Ma non prima di essermi tolto la soddisfazione di improvvisare una supercazzola alla cassiera. Così, per una sorta di rappresaglia morale.






Ps: Caro commesso dell'Unieccetera, che trascorrerai la tua esistenza di lavoratore sottopagato tra un contratto interinale e l'altro, incontrando la tua massima realizzazione economica con le commissioni sulla vendita porta a porta dell'Enciclopedia Universale dei Cavaturaccioli, ascoltammi. Non dare la colpa di ciò che ti attende alla recessione, alla crisi, al Governoladro, o ad un'imprenditoria arraffona e sorda alle esigenze occupazionali delle nuove generazioni. La responsabilità del tuo grigio e anonimo futuro è solo mia. E del simpatico pamphlet: "La macumba per tutti, in particolare per tua sorella", che ho letto con sommo piacere quest'estate sotto l'ombrellone.

giovedì 20 agosto 2009

Femministe fai da te? Ahi ahi ahi...



Visto che siamo in periodo di agone atletico a livello internazionale, terrei molto a conferire la medaglia d'oro per l'ipocrisia acrobatica e il femminismo a mezzo servizio alle strenue fautrici del cosiddetto "burkini". Il "cellophane da bagno per signore diversamente emancipate", tanto per dare una definizione in puro stile politically correct. Far passare un affronto violento e degradante all'autodeterminazione femminile come una "scelta consapevole" ed una" rivendicazione identitaria", infatti, non è certo impresa facile, anzi, quasi risulta più semplice correre i 100 metri piani sotto il muro dei 9 secondi. Eppure le campionesse in tale disciplina fioccano in ogniddove. Intendo nel femminismo d'accatto, non nei 100 piani. Ma una volta non si usava bruciare reggiseni in piazza? Forse ricordo male, anzi, siccome all'epoca non c'ero di sicuro qualcuno mi avrà raccontato cose diverse dal vero.

Oppure, evidentemente, oggi il femminismo marcia a compartimenti stagni, e quelle "mangiapreti d'assalto" sempre pronte a chiosare qualsivoglia uscita (spesso infelice, e sia) del Vaticano, soffrono di un monofagismo sacerdotale quantomeno bizzarro che le spinge a trovare parecchio indigesto qualunque manicaretto che non sia a rigoroso marchio cattolico.

Premetto che non ho nulla da obiettare sul fatto che una donna decida di uscire di casa velata, purché questa sia davvero una scelta consapevole e non indotta attraverso una coercizione più o meno palese. Che lo indichi la religione (ho detto "indichi" e non "imponga" perché personalmente ripongo fede tanto nei comandamenti dell'Altissimo quanto nei Principi dell'89), o la moda del momento, neppure indossando la giacchetta dell'intollerante mi riesce di trovare una ragione per cui si dovrebbe impedire tale pratica. Resto tuttavia convinto del fatto (e a suffragare questa mia convinzione porto lunghe ore di chiacchierate con le dirette interessate, incrociate sugli autobus ai tempi del liceo), che la gran parte delle ragazzine velate avrebbero ben più piacere di poter sfoggiare trecce e code di cavallo che non capigliature posticce, per quanto di seta, raso o cachemire. Ma tant'è, ed è inutile specularci più di un tot.

Vorrei però proprio vedere cosa accadrebbe al sottoscritto se si recasse in piscina indossando, anziché il costume d'ordinanza, un doppiopetto gessato blu spalla italiana con pochette all'occhiello e, per gradire, una cravatta Marinella, rivendicando in tal guisa il sacrosanto diritto all'abluzione con le vesti più consone al proprio retaggio culturale. Come minimo, un nerboruto bagnino lo spedirebbe a pedate al centro di igiene mentale più prossimo alla piscina. E senza che né i Cobas dei sarti né i paladini del classico abbiano nulla da replicare.

domenica 15 marzo 2009

lunedì 26 gennaio 2009

Non mi tornano i Conti


Italiani: popolo di santi, navigatori, poeti e commissari tecnici della Nazionale di calcio. Di recente, però, un'altra categoria si è aggiunta al novero. Quella dei nobili. In forza di una bizzarra quanto audace tesi che non vi so spiegare, infatti, c'è chi va dicendo in giro che tutti, bene o male, possiamo vantare origini d'alto lignaggio. Basta iscriversi a qualche servizio on-line specializzato, versare un certo qual obolo, e attendere che le rigorosissime ricerche storico-anagrafico-archivistiche, condotte da un pool di studiosi diplomati all'istituto tecnico "Giosuè Pascoli" e laureati per corrispondenza dopo aver inviato in busta chiusa quarantaquattro bollini dei cereali all'indirizzo indicato sulla confezione, diano il titolato responso. E' un sistema facile, veloce e affidabile. Come quei cartomanti televisivi che promettono divinazioni sconcertanti agitando per aria uno scovolino da stufa.

Certo che se però di cognome si fa Scornavacche, Cazzapuoti, Diotallevi o Carradore, un minimo dubbio sul fatto di poter effettivamente vantare antenati di sangue reale dovrebbe sorgere. E invece no, tanto che la brama di scoprire tra i propri avi un Principe di Quarto Oggiaro, un visconte di Busto Arsizio o un granduca di Nocera Inferiore miete vittime tra il popolo bove quanto non potrebbe farne nemmeno una peste bubbonica particolarmente virulenta in un poverissimo villaggio del Rajastan.

Così persino sul mitico Feisbuc cominciano a comparire gruppi e fanclub dedicati all'araldica d'accatto: scrivi il tuo nome e cognome, dicci di dov'era tua zia, suggeriscici la località di vacanza preferita del tuo vecchio postino, e in quattro e quattr'otto eccoti il tuo blasone inquartato con vanga d'oro in campo cremisi, giglio di Francia, cuore di panna, trionfo di sedani e cotolette in carpione. Da servire freddo e in terrina antiaderente.

Una volta, quando ancora la tecnologia spinta e la multimedialità non avevano invaso del tutto le nostre misere ed inconcludenti esistenze, c'erano dei tizi che giravano di fiera in fiera con un banchetto imbaldacchinato ed un meraviglioso computer dal quale, digitando il cognome in linguaggio turbopascal, si poteva aver sciorinati in men che non si dica l'albero genealogico, il titolo nobiliare, lo stemma, e persino le chiavi del garage del castello e una fedelissima riproduzione in scala della targa della carrozza posseduta dall'aristocratico trisavolo. Ovviamente, alla fine della fiera, tutti risultavano essere in qualche modo conti, baroni, principi, marchesi aut similia.

Persino io, che per celia avevo chiesto al serioso operatore di effettuare una ricerca pur sapendo di poter vantare esclusivamente ruralissimi natali "zappantibus et sarchiantibus", ero comunque risultato essere feudatario di qualche cosa. Penso del parcheggio pluripiano di un centro commerciale, se non vado errato, con diritto di conio sui gettoni del carrello. Ma sono passati diversi anni, la memoria mi tradisce e non ci metterei la mano sul fuoco.

E, sempre secondo il computer, c'avevo pure un bello stemma tutto sbuffi di porpora e fronde di quercia con dentro i puffi, la fototessera di Maradona alle elementari, la croce di Savoia, il tanga di Anna Falchi e un cavaliere medievale in sella ad un paracarro che brandiva a mo' di mazza ferrata uno scopettone del cesso. Peccato non averne approfittato: oggi un crest del genere farebbe un figurone sul mio mobile porta-tv dell'Ikea, a fianco alla gondola e alla boccia con dentro la Basilica di Superga che se la giri nevica.

giovedì 22 gennaio 2009

Bella, prof! Pimpami la storia...


Apprendo con smisurato gaudio e inarrestabile letizia che la Repubblica Popolare Cinese ha deciso di dichiarare il 28 marzo del 2009 festa nazionale. «Embè - si chiederanno ora i miei 25 lettori - che accidenti sarà mai successo il 28 marzo?». E' successo che esattamente cinquant'anni fa, suppergiù proprio attorno a quella data, l'allora Dalai Lama dovette abbandonare il Tibet per sfuggire alle persecuzioni cui erano sottoposti lui e i suoi seguaci da parte del simpaticissimo e giovialissimo governo di Pechino. Una data da festeggiare, insomma. Specie per il PCC.

Ma la cosa più straordinaria sapete qual'è? E' la motivazione addotta dal governo cinese per eleggere la data a festa nazionale. Ovvero la «liberazione» del Tibet dal «giogo di un'oppressione di stampo feudale». Sì sì sì, proprio così. Testuali parole, semplicemente tradotte dagli enfatici ideogrammi in mandarino. Insomma, secondo i Mao's Friends la placida ed inoffensiva teocrazia dei bonzi sarebbe stata il diabolico oppressore che non veste Prada ma tuniche color arancio. Roba che neanche il fratello cattivo di Luigi XVII. Mentre invece i carri armati con la stella rossa sarebbero stati i portatori della fiaccola della libertà. Wow. Non fa una grinza, no? E se basta così poco a frullare la storia e rivoltarla come un calzino, chissà che belle news ci porterà il futuro.

Ecco, suppergiù, cosa credo ci aspetterà nel programma dei festeggiamenti dei prossimi anni:

- l'associazione internazionale neonazista "Gli amici di Adolf" indirà per il 14 giugno del 2010, a sessant'anni esatti dall'apertura dei cancelli di Auschwitz, una giornata di festeggiamenti per celebrare il primo "parco giochi a tema" della storia.

- il 24 agosto dello stesso anno un gigantesco motoraduno di barbuti appassionati delle dueruote e armati di catene, provenendo dall'Est Europa convergerà sulla capitale italiana per celebrare la ricorrenza del 1600esimo anniversario della gioiosa scampagnata organizzata da Alarico, al grido di: "Tutti a Roma, pranzo al sacco"

- Il 13 maggio di quest'anno, invece, si festeggerà la "Giornata Mondiale contro la noia derivata dal troppo studio", celebrata per la prima volta da Pol Pot nel 1976. Ognuno potrà scendere in strada con una roncola, un badile o un piccone e calarlo con violenza sulla testa del primo intellettuale noioso di passaggio. «Riconoscere un noioso intellettuale - ci spiega Pol Pot - è facilissimo: basta che porti un paio d'occhiali»


E via di questo passo. Pensate un po' che bello: quante feste, quante celebrazioni. Forse addirittura l'Ordine nazionale degli architetti si mobiliterà per un seminario dedicato a Nerone, il più grande e rivoluzionario urbanista dell'antichità.

Guardare al passato non è mai stato così divertente.

mercoledì 21 gennaio 2009

La rivincita dello zavorrino


Il nuovo “girl power” smanetta sull’Harley. Sella più bassa, leva del cambio più morbida, pedaliere a misura di donna e, ovviamente, linee di abbigliamento che oltre a soddisfare le esigenze di una vera rider strizzano sempre di più l’occhio al lato glamour dell’andare in moto: sono queste le ultime “avances” lanciate dalla celeberrima casa motociclistica di Milwaukee per conquistarsi una fetta sempre più consistente di preferenze al femminile. Le harleyste, per ora, sono appena il 6% della clientela. Una percentuale che, suppergiù, si attesta allo stesso livello di quello generale delle donne che vanno in moto. Ma la casa americana è sempre più convinta che questi numeri per ora ancora piuttosto esigui siano destinati a subire un nettissimo incremento nel prossimo futuro. Non fatevi strane idee, però: scordatevi ad esempio che a segnare il cambiamento siano solo le virago con lo sguardo truce, i tatuaggi, e il bicipite pronunciato quasi quanto quello dei loro boyfriends. Oggi, infatti, in sella ad un’Harley Davidson saltano su tutte. E dalla parte da cui si controlla il manubrio. Così, anche una delle intramontabili icone del machismo a stelle e strisce ora è pronta a lasciare a piedi gli ormai obsoleti T-Bones per caricare a bordo sempre più Pink Girls. Lo vuole il mercato, il dio a cui nessuno può comandare nulla. Solo obbedire.

Che la moto non fosse più un feudo tutto al maschile, lo si era capito ormai da diversi anni. Ma che il cavallo di ferro che da cinquant’anni scarrozza cattivissimi emuli di Marlon Brando su e giù per le Route 66 di mezzo mondo ora faccia la corte a quelle che fino a ieri potevano al massimo aspirare a fare da passeggere, è un chiaro indice di come le cose stiano cambiando. Avanti di questo passo, molto presto noi maschietti, “sesso forte” ormai solo nelle definizioni comuni, saremo relegati sul fondo della sella, al posto dello “zavorrino”. Perché, come dice una battuta di spirito, oggi a portare per davvero i calzoni ci sono solo più i camerieri delle pizzerie.

Al di là delle facili battute un po’ misogine e sicuramente ammuffite, c’è però la consapevolezza che le cose stanno davvero cambiando. L’interesse della Harley Davidson all’espansione esponenziale del mercato femminile è una cartina al tornasole di una realtà tutt’altro che da sottovalutare. Perché non si tratta più solo di un mutamento culturale che, vivaddìo, si sta finalmente consolidando, smantellando uno dopo l’altro tutti gli stereotipi che fino ad oggi ostacolavano la parità tra i sessi. Ora, infatti, assieme ai sociologi e agli studiosi di costume, scendono in campo anche gli economisti.

Già, perché l’economia è sempre più donna, e non solo per il genere femminile del sostantivo. Gli analisti esperti del settore stimano infatti che ormai l’80% degli acquisti sia determinato da una scelta al femminile: mamme, mogli, fidanzate, compagne, ma anche amiche, condizionano fortemente la scelta delle compere da fare in famiglia e fuori. Dal carrello della spesa al supermercato alla scelta del guardaroba, passando per le vacanze, le uscite serali, gli acquisti hi-tech e così via. Persino nella scelta dell’automobile, uno di quelli che fino a ieri era considerato il classico acquisto appannaggio dell’uomo, oggi l’autorevolissima opinione della donna pesa per oltre il 60% delle scelte finali. I primi a rendersene conto pare siano stati proprio i maggiori produttori al mondo di quattro ruote: i giapponesi. Ieri la Subaru, che per lanciare sul me3rcato italiano ed europeo il restyling delle sue “cattivissime” 4x4 dalla vocazione sportiva si affidava alla voce di testimonial al femminile, che nello spot pubblicitario scherzavano sull’incapacità dei loro uomini di scegliere automobili decenti. Oggi, invece, la Nissan, che ha scelto di assumere sempre più donne in qualità di responsabili alle vendite nelle sue 2.500 concessionarie del Sol Levante.

La spesa, di qualunque forma ed entità essa sia, si fa dunque sempre più rosa. Un dettaglio che poteva un tempo interessare solo barzellette e brocardi, ma che negli odierni tempi di crisi fa drizzare le antenne agli affamatissimi operatori commerciali di tutti i settori. Tanto che, dai settori del marketing più propriamente al femminile, come il benessere, la moda e la cosmesi, fino a quelli che, almeno sulla carta, femminili lo sarebbero molto meno, come appunto i motori, l’autorevolezza del parere in rosa è quella cui viene ormai dato universalmente sempre più peso. Così sempre più aziende si affidano a consulenti femminili, puntano a fidelizzare una clientela prevalentemente femminile e prima di lanciare sul mercato nuovi prodotti si sincerano che questi attraggano gli interessi di un pubblico, indovinate un po’?, femminile.

Chiunque in questi tempi difficili si stia arrovellando sul modo di risanare i propri magri bilanci e superare la crisi, è avvisato: per avere un parere attendibile, bisogna chiedere a lei.