mercoledì 3 novembre 2010

"Giovinezza" e l'Alzheimer altrui


«Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza». Ogni volta che la sente intonare, chi scrive ha avvertito fortissimo un tuffo al cuore, di quelli che solo le emozioni forti sono in grado di regalare. Un tuffo al cuore ed un groppo in gola, che non va ne su e ne giù, che si ricaccia solo come si fa con le lacrime quando ci si commuove, e che tante volte l'ha fatto singhiozzare quando avrebbe dovuto cantarla lui stesso. Eppure, questo meraviglioso canto che l'anno scorso ha festeggiato cent'anni tondi tondi, sono riusciti a farcelo odiare, ricamandoci tutt'intorno un castello di bugie o, peggio ancora, di mozze verità.

Oggi, come se non bastasse, il libro della damnatio memoriae ha visto scrivere un'altra triste pagina. "Giovinezza" approderà forse a San Remo, il Festival della Canzone(tta) italiana, per essere esposto ancora una volta al pubblico dileggio in qualità di brano nero nero da contrapporre alla rossa rossa "Bella Ciao", nell'ennesima rifritta parodia di quel Guelfi&Ghibellini che piace tanto agli italiani da teleschermo. Ci ha pensato il direttore artistico del Festival rivierasco a gettare l'ennesima palata di oblio travestito da passione esegetica definendo "Giovinezza" un'opera canora «passata alla storia come inno del ventennio, ma che nacque come canzone della "goliardia" toscana nei primi del '900». E aggiungendo poi, quasi fosse una candid camera: «Sono molte le curiosità non conosciute legate a questi brani e noi le racconteremo». Raccontare la storia così com'è, direttore, potrebbe essere un ottimo inizio.
"Giovinezza" vide la luce tra il 1908 e il 1909, e a scriverla, assieme a Giuseppe Blanc, fu un certo Nino Oxilia, torinese, studente universitario e goliarda prima, giornalista, commediografo e soldato poi. "Giovinezza" era appunto un canto goliardico, ma della Goliardia vera, quella che nasce nell'Università, quella che è l'Università, perché ne canta la vita, la tradizione e gli ideali, prima ancora che libri ed esami, oggi troppo spesso ridotti ad un sudoku da statino. "Giovinezza" era il canto che gli studenti di Giurisprudenza torinesi, bontà di Mazzi, intonavano ogni qual volta un collega abbracciava l'intenzione malsana e un po' bislacca di abbandonare la vita studentesca per conseguire quella Laurea che ne avrebbe fatto un uomo, uccidendo il giovane. Un canto che solo molto più tardi il fascismo fece proprio, rabberciandolo con una retorica sciovinista con tanto moschetto e poco libro, come del resto era riuscito a fare di tante altre cose belle, giovani e italiane. Quasi tutte, del resto, all'infuori, guardacaso, della goliardia, che rimase tra le poche Istituzioni patrie in grado di continuare con coraggio, e una buona dose di astuzia, a farsi beffe del regime fino alla fine dei suoi giorni.

Nemmeno dieci anni più tardi, il torinese Oxilia avrebbe trovato ad opera di una granata austriaca una morte eroica, stavolta sì senza retorica, ai piedi del Monte Grappa, il 18 novembre del 1917. Era partito come tanti altri per difendere col fucile e la vita quello che aveva imparato ad amare col cuore e la spensieratezza decisa dei vent'anni: la libertà. La stessa cantata nella sua "Giovinezza". Senz'altro, se la sorte gli avesse dato modo di vivere più a lungo, da buon goliarda qual era Oxilia avrebbe sicuramente apprezzato le bellezze naturali toscane, specie quelle in sottoveste, così come i suoi vini superbi e i manicaretti da gourmet. Tuttavia mi sembra ugualmente una forzatura prendere quest'ipotesi come giustificazione per affibbiargli natali alieni agli originali.

Un caro amico mi ha detto che un tempo i filosofi e letterati erano dentro al mondo e ne vivevano il tumulto, mentre oggi letterati e filosofi, o sedicenti tali, vivono alla finestra e giudicano il tempo che passa. Credo che, tra un giro di clessidra e l'altro, i cattivi maestri di oggi potrebbero anche trovare il tempo per non dimenticare, per non lasciare che la polvere cada su tutto e su tutti, in attesa che qualcuno arrivi a giudicare il cimelio troppo polveroso e decida di mettere al suo posto qualcos'altro.

Certo, la storia di Oxilia e della sua "Giovinezza" è forse una piccola storia. Probabilmente un po' troppo piccola per i monumenti dedicati a tanti altri eroi morti come lui su quei campi di battaglia, dove col sangue di tanti giovani si potè finalmene scrivere ITALIA per intero, su milioni di carte geografiche e su altrettanti cuori. Forse un po' troppo piccola persino perché la sua produzione letteraria finisca nelle antologie scolastiche o nei saggi di tanta intellighentia moderna. Ma non abbastanza perché ogni anno, il 18 novembre, un pugno di romantici e scanzonati goliardi, torinesi e non toscani, con buona pace degli eroi-studenti di Curtatone e Montanara, rinunci a recarsi con un mazzo di fiori freschi e a cantare a squarciagola "Giovinezza" sotto la stele sbiadita che ricorda il suo vero autore, in via Garibaldi, ricacciando lacrime di commozione e groppi in gola, sfidando il freddo pungente, gli inquilini gelosi di quel balcone dal quale occorre affacciarsi per deporre i fiori, e gli sguardi indignati e attoniti di chi non conosce la storia e passa via mormorando "fascisti!".

Ad una manciata di settimane da quel 2011 in cui si celebrerà in gran pompa il 150° anniversario della Nazione, sarebbe forse il caso di cominciare ad infiocchettarle il regalo a cui tiene maggiormente, più di trombe, lustrini e tagli di nastri: una giusta memoria per i suoi figli migliori, quelli che hanno saputo amarla più di chiunque altro, fino a morire per amore.

L'eterno dilemma tra etero, gay e decaffeinato in tazza grande


Voglio fare un esperimento sociologico/culturale d'accatto, e spero sarete così gentili da farmi da cavie. Voglio che chiamiate a cimentarsi in questa tenzone anche tutti i genitori, amici, parenti, fidanzati e Testimoni di Geova/rappresentanti porta a porta di enciclopedie o aspirapolvere che dovessero trovarsi nel raggio di azione delle vostre possenti braccia prensili mentre leggete queste righe. Voglio che siate in tanti, perché più siamo meglio stiamo. Voglio rianimare con del sano flame questo luogo ormai ricoperto di polvere. Voglio una motocicletta nuova, ma dubito possiate aiutarmi se non con una sottoscrizione sul mio conto corrente di cui, nel caso siate interessati, portò lasciarvi le coordinate in altra sede. Ad ogni modo. Voglio proprio vedere cosa succede a chiudere in un barattolo luoghi comuni, intolleranza, politicamente corretto, buonismo, ignoranza, progressismo, cultura, apertura mentale, noce moscata e un po' di altri ingredienti che di solito messi l'uno vicino all'altro finiscono con il fare a pugni. Voglio agitare bene bene bene e aspettare che esploda. Qui, proprio qui, su questa pagina. Lontano dal tappeto, ché poi sporca.

Ma soprattutto, nella sconsiderata generosità e filantropia che fin dal lontano dopodomani mi contraddistingue, voglio regalarvi un'occasione unica e irripetibile. Talmente unica e irripetibile che nemmeno nel gran calderone internettiano, in cui persino se cercaste le foto della Binetti in costume sado-nazi e ciabatte da mare trovereste comunque almeno un book di contraffazioni Made in Photoshop di qualità accettabile, s'è mai vista prima: un blogger, nella fattispecie il sottoscritto, seriamente intenzionato a sentire come la pensano i lettori. E che addirittura CHIEDE ai lettori di dire la loro. E poi la legge, addirittura. Cioè, perde del tempo prezioso, tempo che potrebbe tranquillamente impiegare in qualcosa di estremamente più costruttivo, ad esempio scaccolarsi con voluttà riflettendo su San Pacomio e la sua determinante azione ecumenica nel passaggio epocale tra il monachesimo anacoreta e quello cenobita, per dare retta alle vostre cazzate. Ma vi rendete conto?!? Ebbene sì. Sic est. Boja faos, che soagn, neh?

Allora, ci state? Bene. L'esperimento è semplice semplice. Almeno lo è in apparenza, come tutti gli esperimenti di questo tipo. Comunque, già che siete arrivati a leggere fin qui, tanto vale proseguire ancora un po'. Tanto ci siamo quasi. Eccoci. Commentate con tutte le parole, perifrasi, tesi, antitesi e argomentazioni possibili la frase di Melania Rizzoli, deputata Pdl: «Basta ipocrisie: tutti preferiremmo figli etero», riportata come titolo della lettera aperta inviata dalla suddetta a Il Giornale, sull'onda delle polemiche per la frase con la quale il presidente del consiglio ha messo sul piatto della bilancia l'omosessualità e la passione per le gonnelle propendendo di gran lunga per la seconda ipotesi.

Un'unica specifica tecnica, come in qualunque esperimento che si rispetti, perché se no non vale. Altrimenti sarebbe come chiedervi di progettare un razzo vettore ignorando le leggi di Newton. Ma tanto è solo una, che volete che sia? Poi giuro che vi lascio liberi liberi, come nella canzone di Vasco. La frase da commentare è ESATTAMENTE quella riportata tra le virgolette. Non una parola di più, non una parola di meno, non una parola diversa da quelle che sono scritte.

Ve la sentite? Su, potete farcela. E poi, scusate, quando vi ricapita un'occasione così?

A vous...

sabato 18 settembre 2010

Uno stronzo nel piatto: il pangasio


Il pangasio. A sentirlo nominare per la prima volta sembrerebbe di assistere ad una delle meglio riuscite “supercazzole” del conte Nello Mascetti, impareggiabile protagonista con il volto e la voce del grande Ugo Tognazzi della trilogia di “Amici Miei”. Pangasio. Eh sì parrebbe proprio uno scherzo. Invece no, è un pesce. O meglio, è quello che vorrebbe farci credere. Una sorta di grosso pesce gatto, per la precisione, che abita i fiumi dell’estremo oriente, in particolare il delta del Mekong, in Vietnam. Prolifico, con una grande capacità di adattamento e una voracità degna degli esemplari della sua famiglia, ha fatto di molti fiumi dell’Asia sudorientale il suo regno. Pescato, anzi, pescatissimo dalle popolazioni locali, che si trovano a portata di lenza una consistente riserva di cibo di facile accesso e a basso costo, ha già conquistato anche gli interessi delle multinazionali occidentali delle cibarie, che lo hanno importato con successo in molti menù aziendali d’Oltreoceano.

Da qualche tempo a questa parte, però, i filetti di pangasio sono entrati prepotentemente anche nel menu offerto da ristoranti, tavole calde, ma soprattutto mense aziendali, comunali e scolastiche di casa nostra. Perché il pangasio si pesca in gran quantità, dunque costa pochissimo, e la sua carne non emana il caratteristico odore di pesce, per molti fastidioso. Anzi, non emana proprio nessun odore. Tantomeno nessun sapore. Ma le sue bizzarrie organolettiche, e lo vedremo meglio con l’aiuto del nostro esperto di fiducia, non finiscono qui.

Ma che cosa sarà mai questo pangasio? Il pangasio, nome scentifico “Pangasius hypophthalmus”, è un pesce d'acqua dolce, appartenente alla famiglia dei “Pangasidi”. Nativo, come si è detto del Mekong, ma anche del Chao Phraya e dei loro affluenti, è molto diffuso in Asia: abita le acque dolci del Vietnam, della Thailandia e della Cambogia, in particolare quelle dei fiumi più grandi, ma non disdegna viaggiare. Stagionalmente, infatti, nel periodo dei monsoni, compie lunghe migrazioni per riprodursi. La riproduzione avviene tra marzo e agosto, durante la stagione dei monsoni, per l’appunto: gli adulti risalgono la corrente durante il periodo dei monsoni e, una volta deposte le uova, affrontano un nuovo spostamento a ritroso, verso valle, nel periodo in cui le consistenti precipitazioni cessano e il livello delle acque torna alla normalità. Il pangasio, così come tanti altri pesci, non si rivela un genitore molto premuroso: ogni nuovo nato deve fare da se’, se vuole sopravvivere, perché tutte le uova deposte vengono lasciate disperdere dalle acque, senza alcuna cura parentale.

Una volta raggiunta l’età adulta, il pangasio sfoggia un corpo tozzo, una testa piatta con larga bocca e piccoli barbigli, che lo fanno somigliare proprio a quel pesce gatto sotto le cui spoglie, talune volte, viene propinato. La pinna dorsale, le pettorali e le pinne ventrali, invece, pur essendo molto allungate rispetto alle forme compatte del corpo, appaiono comunque di dimensioni contenute. La livrea dell’adulto è bruno-grigiastra sul dorso, mentre sul ventre la colorazione tende più fortemente al chiaro. Decisamente più “carini” a vedersi, invece, gli esemplari più giovani: meno tozzi, più slanciati, sfoggiano una colorazione tra il blu e l’argento.
Sono le dimensioni, però, la caratteristica che più di ogni mero aspetto estetico hanno decretato la fortuna commerciale del pangasio sui mercati ittici di mezzo mondo: uno di questo “pescioni” infatti, può facilmente raggiungere i 130 centimetri di lunghezza, per un peso complessivo che tocca mediamente i 15 o anche i 20 chilogrammi. Non mancano però di abboccare alle esche dei pescatori esemplari record, alcuni dei quali capaci di toccare anche i 40 chilogrammi. Roba che, tradotto in filetti, significa tanti pasti aziendali a costo (quasi) zero.
Perché il pangasio “spopola” nei fiumi dell’Asia e sulle tavole dell’Occidente? Perché mangia di tutto, e in gran quantità. Questo pesce, infatti, è onnivoro, e si nutre tanto di vegetali così come di invertebrati, crostacei e altri pesci, che infatti lo temono per le sue doti di formidabile, ma soprattutto voracissimo, predatore. Come sì ha già avuto modo di accennare, il pangasio rappresenta un’importantissima fonte di cibo per le popolazioni che vivono attorno ai bacini idrici da lui abitati. E’ allevato con poco sforzo e moltissimo rendimento in diverse zone dell’Estremo Oriente: in special modo la Thailandia e il Vietnam, paese, quest’ultimo, da cui proviene la maggior quantità di pangasio che si può trovare in commercio dalle nostre parti.

Sebbene la mania di farlo finire in pentola da noi sia scoppiata soltanto di recente, già da molto tempo il pangasio viene importato per un altro fine: quello di far bella mostra di se’ negli acquari. A questo scopo vengono pescati giovanissimi nel Mekong e venduti in Occidente per essere messi in ammollo nella vasca di casa, vicino al finto palombaro che fa le bolle e al relitto del galeone spagnolo. Un pangasio che si trasforma in filetto, però soffre di meno: grossi pesci della sua stazza, abituati per di più a vivere in grandi spazi e a compiere lunghe migrazioni, risentono pesantemente, anche a livello fisico, della vita in cattività. Per questo motivo gli esperti consigliano di allevarli esclusivamente in acquari larghi più di un metro e mezzo, ed in gruppi di almeno 5 esemplari. Inutile però farsi illusioni: rinchiusi nella “boccia” di casa i pangasi non supereranno mai i 30 centimetri di lunghezza.

Oggi, però, il pangasio fa notizia non tanto perché qualcuno lo tiene in casa, ma parché molti, anzi, moltissimi lo mangiano. Anche se i valori nutrizionali delle sue carni ne fanno un vero e proprio “casus” gastronomico. Il pangasio, infatti, contiene un'alta percentuale di acidi grassi saturi, pari a circa 45% del totale, mentre la quantità di Omega-3, gli acidi grassi “buoni”, essenziali al buono stato dell’organismo, sono appena il 5%. Il contenuto di grassi in genere è comunque minimo, soltanto 2 grammi ogni 100. In Italia, paese dove ha cominciato a “spopolare” solo di recente, dopo aver conquistato invece da un po’ più di tempo le tavole statunitensi e quelle di altri paesi più “di bocca buona” nel Vecchio Continente, ha dovuto superare esami di laboratorio rigorosissimi prima di poter ottenere l’autorizzazione alla vendita. Il delta del Mekong, luogo da cui proviene la maggior parte del pangasio pescato, è infatti uno dei bacini di acqua dolce più inquinati al mondo. Una vera e propria bomba ecologica, che raccoglie non solo tutti gli scarichi domestici senza alcun tipo di filtro o depurazione, ma anche tonnellate e tonnellate di residui di lavorazione “liberate” senza troppo problemi dalle industrie che sorgono sulle rive del fiume. Tutto sommato, però, le analisi hanno appurato che la carne di pangasio, per lo meno quella che fa il suo ingresso nei nostri menù, è relativamente sana: la concentrazione di mercurio e di pesticidi organoclorurati, nonché dei famigerati PcB rilevata nei campioni esaminati è bassissima, e rende per tanto questo pesce mangiabile più di due volte a settimana, ovvero la dose normalmente consigliata per un corretto consumo dei prodotti ittici. Anche la consistenza delle carni, unita alla totale assenza di lische, fanno del pangasio un pesce “amico” anche dei palati più schizzinosi.
Non è tanto una questione di salubrità in senso stretto, dunque, né di gusto. Anzi, chi sceglie, purché possa farlo con adeguata consapevolezza, di consumare pangasio, in molti casi lo fa proprio perché, inodore e insapore com’è, non storce il naso così come di fronte ad altri tipi di pesce.

I problemi veri, semmai, si presentano quando il pangasio viene presentato e venduto come “altro”. Come pesce gatto, ad esempio, come sogliola, o come platessa. Le carni bianchissime, pulite e prive di lische, e magari anche una confezione modificata “ad hoc”, potrebbero trarre in inganno sulle prime anche la massaia più smaliziata. Inutile dire che, in tal caso, si tratta di una vera e propria truffa, perseguibile penalmente a termini di legge. Una “contraffazione ittica” però molto lucrosa per il commercio, dato che il costo del pangasio rispetto a quelli dei pesci che dovrebbe “imitare”, è irrisorio. E proprio contro questa forma di truffa si sta scatenando in questo periodo una vera e propria caccia da parte della Guardia di Finanza e del sistema di controllo sanitario nazionale.

Altro problema, il confezionamento: il pangasio arriva in Italia congelato, in confezioni sigillate e recanti tutte le indicazioni necessarie alla corretta identificazione del contenuto. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero, e spesso il prodotto mal confezionato o non conservato alla temperatura consona si presenta in condizioni pesantemente alterate, inadatte alla vendita ed al consumo. Anche in questo caso, occhio a quello che si acquista.

Molto probabilmente, però, il fenomeno-pangasio in Italia è destinato a spegnersi con la stessa rapidità con cui è esploso. Perché i vantaggi del suo consumo, che stanno tutti solo ed esclusivamente nella sua straordinaria economicità, non sono certo quelli in grado di suscitare appeal sul consumatore medio italiano, che magari è disposto anche ad allargare un po’ di più i cordoni della borsa, per quanto vuota questa possa essere, pur di non rinunciare alla buona cucina. E’ un po’ lo stesso principio secondo cui nemmeno con la crisi e il costo galoppante dei cereali nessun italiano ripiegherà mai sull’economicissimo hamburger del fast food rinunciando alla “cara”, ahinoi, un po’ in tutti i sensi, pastasciutta fatta in casa.

venerdì 27 agosto 2010

Infornare per resistere


Il est fou. Il est bizarre. Già. Nell'era post-bloggeriana dei social network siamo sempre più martellati DA pittoreschi indivudui o congreghe che, animati dalla sacra facie del giornalismo d'inchiesta, smaniano per informare le masse su tutto ciò che il regime tiranno e oscurantista vorrebbe impedire loro di apprendere. Eppure è ben strano che, quelle stesse masse schiavizzate assetate di informazione che suggono la preziosa conoscenza dalle penne mai dome di queste improvvisate gole profonde siano le stesse che, davanti ad un edicola, si limitano a sorseggiare di malavoglia l'almanacco del sudoku.

Bramiamo smaniosamente la libera informazione ma in realtà non sappiamo che farcene, anzi, ci fa anche un po' schifo. Altrimenti, se così non fosse, ci basterebbe leggere più giornali. Sì, perché se per informazione libera si intende la possibilità di conoscere ed essere aggiornati su ciò che accade, signori miei, allora siamo ampiamente serviti, e i canali sono così numerosi che c'è solo l'imbarazzo della scelta. Pensate, possiamo addirittura ammirare il panorama con le lenti colorate della sfumatura che preferiamo, se i prati sempre verdi e i cieli sempre azzurri ci vengono a noia. Ma se invece per informazione libera si intendono "Tutte le notizie così come l'ascoltatore di turno vorrebbe sentirsele raccontare, e non ha mai osato chiederle", beh, qui c'è un problema di fondo. Per lo meno a livello di significato.

Così come è c'è un problema di fondo, di nuovo, quando gli stessi che lamentano di essere tenuti all'oscuro di tutto da parte del mondo dell'informazione ufficiale poi non comprano un giornale nemmeno sotto la minaccia di una pistola spianata. Sfido io. E' un po' come la barzelletta del padre di famiglia napoletano sul lastrico che ogni mattina prega San Gennaro perché gli faccia vincere un terno al lotto, sino al giorno in cui il santo, esasperato, sbotta: "Ia', 'uagliò, e va 'bbuono, però ggiocace almeno 'na vota a 'sto lotto!".

Ultimo esempio, ma solo in ordine di tempo, la sfilza di presunti scoop del sito web Wikileaks, salito alla ribalta delle cronache semplicemente per aver raccontato tutte in una volta le notizie che, per sei o sette anni, giorno dopo giorno, gran parte dell'opinione pubblica si era semplicemente rifiutata di ascoltare, per disinteresse o per ignavia, dai canali di informazione ufficiali. Che, se ci pensate bene, è come se un ex studente svogliato e bigione, leggendo anni dopo il liceo un bel libro sulla Storia del Risorgimento, se ne uscisse con un: "Ehi, ma queste cose non me le aveva mai raccontate nessuno!". Ma sempre sulla stessa lunghezza d'onda, tanto per intendersi, viaggiano anche le cosiddette "rivelazioni" contenute nei sedicenti romanzi dell'autore americano Dan Brawn, forse tra i più abili minipimer di ovvietà che l'umanità abbia mai avuto il privilegio di conoscere.

E allora, specie nel Paese in cui meglio che in qualunque altra parte del mondo ci si rifiuta di leggere i giornali e poi si accusano i giornalisti (ma solo quelli veri) di non fare il loro mestiere, ecco fiorire come i bucaneve a marzo gruppi e gruppuscoli di agguerrite parodie della premiata ditta Woodward & Bernstein, che spopolano rivelando come esoteriche verità notizie vecchie come l'asse del cesso, oppure "pompate" a suon di steroidei dati fasulli per renderle più scandalose (ergo più appetibili) per le orecchie di chi solitamente disdegna cibarsi la semplice realtà dei fatti senza condimento e spezie, o ancora semplicemente inventate, con l'idea che la libertà di informazione sia un lasciapassare sufficiente e necessario ad interpretare il vero ad uso e consumo dello scrivente.

Infornare per resistere, dunque. E buon appetito a tutti.

giovedì 13 maggio 2010

Le ricette di suor Dina Zione - Frittatona alla Boia Vigliacca



Ingredienti per due persone affamate e senza scrupoli:

- 7/8 uova intere
- salame piccante o salsiccia napoletana a piacere (ricordate che tanto, prima o poi, la morte arriva per tutti, e non è nemmeno detto che i Maya avessero poi tutti i torti. Quindi, in fondo, che ve ne frega?)
- una presa di sale
- una ferma presa di posizione contro le dottrine Herbalife
- cipolla
- peperoncino

Tagliate il salame a cubetti, badando bene di non affettare nel contempo anche le vostre falangette. La loro inattesa presenza, infatti, oltre a condizionare il sapore del manicaretto, potrebbe inficiare sulla vostra capacità di seguitare nella sua corretta preparazione. Sottoponete allo stesso trattamento anche la cipolla. Non badate alla lacrimazione copiosa, a meno che questa sia dovuta all'incauta cesura delle vostre dita.

In una capiente scodella, procedete a rompere le uova, evitando possibilmente di rompere anche le palle. Accertatevi preventivamente della loro identità: se sono tozze, dal colorito verde-bruno, l'odore vagamente dolciastro, il guscio insolitamente morbido e coperto da leggera peluria, desistete: sono kiwi.

Con l'ausilio di una forchetta, un cucchiaio, un eripice, un protodeionizzatore quantico ad impulsi gamma/b negativi o un segretario provinciale del Partito Umanista, rompete i tuorli e mescolateli agli albumi fino ad ottenere un'amalgama uniforme. Nel caso i vostri albumi siano incompleti, chiedete le figurine mancanti a: Panini Spa, Viale Emilio Po, 380 - 41126 Modena, Italia, allegando il corrispettivo in francobolli. Salate a piacere.

In una padella dalle dimensioni sconcertanti, fate soffriggere salame e cipolla, spruzzando di tanto in tanto il tutto con un dito d'acqua per evitare che i dadini si attacchino alla padella, ma soprattutto per creare quei simpatici effetti fumogeni che fanno tanto Blade Runner e divertono molto i bambini. E anche voi, diciamocelo.

Quando ritenete che la temperatura della padella sia alta quanto basta (potete sincerarvi voi stessi del livello appoggiando forzosamente la mano di un passante - e in cucina chi non ne ha? - su di essa, sapendo che il livello di decibel dell'ululato belluino che ne conseguirà è direttamente proporzionale alla gradazione in Celsius), versate il preparato oviparo di cui sopra.

Lasciate che la superficie ribollente cessi di somigliare alle temibili Paludi di Mordor e si solidifichi, dopodiché provvedete a rivoltare la frittata per consentirle di raggiungere una cottura uniforme e scongiurare inopportune bruciature, brutte a vedersi e, sovente, anche letali a mangiarsi. Se siete donne, l'operazione in questione non dovrebbe risultarvi complessa. In caso di difficoltà, immaginate una conversazione standard con il vostro partner e vi sovverrà immantinente una scappatoia con la quale cavarvi d'impiccio.

A cottura ultimata (se la frittata comincia a fiammeggiare emanando afrori simili a quelli di un termovalorizzatore, lampeggiando al pari di una manifestazione satanica di livello 6, significa che la cottura era già ultimata vagamente circa suppergiù due ore e trenta minuti prima. In tal caso è opportuno ripetere l'intera operazione dall'inizio, magari consultando con più attenzione l'orologio. E l'esorcista) servire su piatto piano e ampio. Si raccomanda di non servire su piano ampio e piatto, o Giovanni Allevi potrebbe seriamente aversene a male e non rivolgervi più il saluto.

Cospargete di peperoncino a piacere, ricordandovi che, però, il mattino successivo una forma di minzione più o meno copiosa avrà comunque luogo, e allora sarà poi troppo tardi per rammaricarsi di eventuali eccessive liberalità, e non dite che non vi avevo avvisati.

Accompagnate con abbondante birra gelata e ad alta gradazione. Rutti bitonali da portuale possono essere un'adeguato accompagnamento sonoro, specialmente se in mancanza di Brandeburghesi in cuffia, tuttavia se ne sconsiglia l'elargizione in caso il desinare venga servito in occasione di una conviviale del Rotary.

Buon appetito!

martedì 30 marzo 2010

Viola di bile



Pasdaran di viola ammantati, ma guardatevi...

Al posto di farvi un sano esamino di coscienza sul perché le urne vi abbiano così sonoramente punito, siete lì, biliosi, con la bava alla bocca a insultare gli avversari nel puerile tentativo di imporre l'ennesima, mai richiesta lezione di ignobile moralismo fariseo. Ben vi sta. Vi credete i numi tutelari della democrazia, e sono gli stessi principi democratici a vedervi pesantemente battuti. Parlate di libertà con la stessa cognizione di causa con la quale Ermete Trismegisto avrebbe potuto discorrere di cibernetica, ed è lo stesso spirito di Libertà e di autodeterminazione che si è ribellato con orgoglio al vostro becero tentativo d'irregimentazione del pensiero, ripetutamente sbraitato in piazza sino alla nausea attraverso i cappi e le manette sventolati come agghiaccianti feticci rievocazione dei pogrom. Ora vomitatemi pure addosso tutto il vostro impotente livore. Guaite pure a distesa la vostra rabbia dal serraglio in cui voi stessi vi siete rinchiusi. In fondo, l'unica maggioranza che potrete mai ottenere senza prevaricazione e sotterfugio è quella in scala di decibel delle vostre urla d'odio cieco.

Con pena e compassione.

lunedì 29 marzo 2010

Mecenatismo prêt-à-porter



Uno dei precetti che più mi sono rimasti impressi della mia formazione cattolica ricevuta in gran parte in famiglia e, in seguito, attraverso qualcosa come 12 anni di scuole religiose (evviva i Fratelli delle Scuole Cristiane, una sorta di parà della pedagogia, che mi hanno convinto a lanciarmi tra le braccia della Conoscenza con lo stesso entusiasmo con cui a Pisa un sergente istruttore convince la recluta a saltare fuori dal portellone di un C-130) è il concetto di solidarietà. Parola usata ed abusata, troppo spesso glassata di un buonismo peloso e interessato, altre volte, invece, guardata con superstizione come feticcio in grado di sistemare le coscienze sporche. Eppure, se ben ricordo, la solidarietà dovrebbe essere altro. Qualcosa che non è semplicemente prendersi cura o aiutare il prossimo liberandosi del superfluo, ma deve per forza comportare un minimo di sacrificio, una rinuncia, insomma, una privazione da parte del soggetto donante, per quanto infinitesimale, a fronte di un beneficio, per quanto anch'esso infinitesimale, per il soggetto destinatario del dono.

Sono iscritto ad una sorta di raccolta punti-fedeltà promossa da un noto gestore di telefonia cellulare. Per ovvie ragioni non posso nominare il marchio, indi per cui vi dirò solo che è omonimo del noto regista Burton. Ad ogni modo: oggi, alle soglie della scadenza della raccolta punti, sono stato chiamato a scegliere tra un ventaglio di gratificanti soluzioni che ricompensassero la mia teutonica fedeltà alla causa, nonché le decine e decine di euro di investimenti mensili da me erogati per il funzionamento del mio personalissmo parla-parla wireless. Potevo scegliere tra: 1) tre mesi di convenientissima tariffa voce + sms + mms + cgil, cisl, uil 2) un periodo similare di agevolazioni alla navigazione internet 3) due biglietti omaggio per andare a vedere giocare la mia squadra del cuore 4) tramutare i miei punti in un simbolico contributo di 30 euri mensili per 12 mesi in grado di pagare gli studi a due infanti di non ricordo bene quale martoriato paese dell'Africa. Ora, considerando che 1) per uno degli infiniti corollari della legge di Murphy, anche il più accanito chiacchierone e vergatore di messaggini quando riceve un bonus per parlare e scrivere aggratis vede calare drasticamente, e non si capisce mai per quale ignota ragione, la propria pulsione a comunicare per tutta la durata della validità del bonus 2) c'ho il blackberry, ergo, l'Internette figo ce l'ho già 3) costringere me stesso, ed un'ignota vittima scelta a caso tra le mie conoscenze, a sorbirsi 90 minuti consecutivi della Juventus di quest'anno è stato annoverato dal Tribunale dell'Aja tra i Crimini contro l'Umanità, va da se' che abbia scelto la quarta opzione.

E qui però sorgono amletici interrogativi. Cioè, dico io. Ho aiutato due bambini a pagarsi la scuola elementare per un anno. Ok, facile e indolore, è bastato un clik e una falsa rinuncia a qualcosa di cui, sinceramente, non avrei saputo che farmi. Due bambini idealmente rappresentati da un'idilliaca foto di bambini neri sorridenti e a piedi scalzi. Due bambini che esistono nella mia testa come quella che l'Abbagnano avrebbe definito "Idea platonica del bambino povero dell'Africa". Due bambini che, fossero nati a Milano, avrebbero pututo anche diventare interisti. Due bambini che, se l'anno prossimo mi mettono tra i premi in catalogo la spada laser di Obi Wan Kenobi, dovranno dire addio alle loro fottutissime sovvenzioni scolastiche. Due bambini che, ammesso e non concesso che riescano a finire la scuola elementare e, siamo generosi, persino la media, non avranno più uno straccio di nessuno che gli paghi il liceo o l'istituto tecnico perché nel frattempo saranno passati dall'essere simpatici bimbi negretti sorridenti a meno simpatici adulti negroni molto meno sorridenti, dei quali, è risaputo, se non finiscono a giocare nel Chelsea, a noi occidentali sostanzialmente non ce ne frega più una mazza.

Wow, sono meglio di Madre Teresa di Calcutta.

venerdì 5 febbraio 2010

Zeru respunsabilità


Temevo sarebbe accaduto, e infatti è accaduto. Ma dai, suvvia, chi voglio prendere in giro? Non temevo proprio un bel nulla. Lo sapevo, punto e basta. Ne ero matematicamente certo. Diciamo piuttosto che in un angolo recondito del mio animo cinico, disilluso e calcolatore balugina(va) ancora la favilla di un ormai ingiustificato idealismo, che mi aveva fatto sperare (sciocco sperare, dal momento che chi vive sperando sappiamo tutti come muore...) che per lo meno la dignità avrebbe finito con l'avere la meglio.

Non dico la morale, la legge, i princìpi, i valori. L'onestà? Figuriamoci. Tantomeno il buonsenso. Dio ce ne scampi e gamberi, quello è in vacanza da tempo, ormai, ma quel genere di vacanza che esordisce sempre con la frase: «Tesoro, esco a comprare le sigarette». Però, caspita, almeno la dignità. In un mondo che ormai mercifica tutto e tutti con un clic, basta solo che si trovi un accordo sul prezzo, credevo (rettifico: speravo) esistesse ancora almeno un baluardo di candida intangibilità. Qualcosa di talmente granitico e intoccabile da comportarsi di fronte al mercimonio coatto così come una cerata da pescatore sotto la pioggia sferzante del più sferzante tra i monsoni. Insomma, mi era pur sempre stato insegnato da qualche parte che, quando tutto finisce, soldi, amori, affetti, amicizie, contatti, pensieri, parole, opere e omissioni, financo parentele, resta solo più quella a distinguere l'essere umano da qualsivoglia altra forma di vita basata sul carbonio e deambulante sulla più acquosa tra le biglie danzanti del Sistema Solare.

Credevo, ma invece. Invece ha vito ancora l'ipocrisia. Non tanto quella forcaiola, che tutto sommato è figlia di una sana indignazione nipote, a sua volta, del senso di dignità di cui poc'anzi. No, l'ipocrisia buonista, pelosa e untuosamente interessata del perdono ecumenico sempre e comunque. Non serve che mi dilunghi sul tema di tanta indignazione personale, la foto parla da se'. L'argomento, esso pure, è di comune sentire, e nel caso non lo fosse esorto il perplesso e il disinformato a levarsi le fette di porchetta di Ariccia di davanti gli offesi bulbi oculari. Idem dai padiglioni auricolari eventualmente ottusi di succedaneo sebaceo strutto.

Ciò che mi urta non è il personaggio, che ritengo (-evo) degnissimo di stima e rispetto. Si badi bene, il personaggio, non la persona. Non è nemmeno il gesto in se', che costui non è stato il primo a compiere e, ahi, lasso, or è stagion di doler tanto, non sarà nemmeno l'ultimo a perpetrare. E' il sistema, becero, ignorante e falso moralista, che gli ha permesso di sgusciare con qualche sguardo accattivante (di cui pare essere fucina) e qualche citazione acuta a metà tra un peto di Oscar Wilde e i melensi strali in carta velina dei Baci, per ribaltare l'immagine del colpevole in quella del redento, e senza nemmeno pagare pegno.

Al tempo, al tempo, gente: non sto affatto dicendo che ritengo debba essere messo a grattare a mani nude il rame da una miniera cilena, con l'ausilio del minimo sindacale di nerbate sulla schiena. Lo penso, ma non l'ho detto. Ma da qui ad essere trasformato prima in figliol prodigo e poi in eroe nazionalpopolare nell'arco di appena 48 ore, e senza, ribadisco, aver nemmeno dovuto sciorinare la benché minima prova di avvenuta redenzione, beh, ne passa a sufficienza da ormeggiarci un transatlantico. Di traverso e in retromarcia, per giunta.

Se nel mondo della tivvì, nauseante allegoria della "White Rabbit Mansion", funziona così, mi tange quanto la marca dello smacchiatore usato dalla governante di George Clooney per rimuovere le macchie di rossetto dai colletti delle di lui camicie da sera. Nella vita vera NON accade così, le regole sono altre. Non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato e, buon Dio aiutami tu, non è nemmeno lo stesso sport. E tanto basta.

Nella vita reale, quella vissuta giorno dopo giorno da millanta e millanta miseri, insignificanti e puzzoni mortali come chi vi scrive (no, a dire il vero chi vi scrive non è né misero, né insignificante né mortali. Lo dice solo perché voi possiate illudervi di essere al suo livello e traiate un illusorio appagamento per le vostre miserabili esistenze), le cose girano diversamente.

Tralasciamo il fatto che non a tutti gli ex (ammesso che ex lo sia poi sul serio, visto che per diventarlo occorrono tempistiche ben più lunghe di un piano americano durante un talk-show) tossicodipendenti è concesso dal fato di risciacquarsi le pudenda nientepopodimeno che alla taumaturgica e inesauribile polla della Fonte di Stato. Concentriamoci invece sul fatto che, qui, sul pianeta terra, chi sbaglia paga. E paga caro. Nella vita reale non accade che una colpa sia meno grave solo perché comune a tanti. E non si ha nemmeno la fortuna di essere difeso a spada tratta da reggimenti corazzati di sedicenti intellettuali e/o opinion maker dispostissimi a perdonare qualunque errore, ma proprio qualunque, non investa direttamente il proprio orticello dietro casa. Per la cronaca, si badi bene, il fatto che l'errore è in questione non sfiori nemmeno per scherzo le natiche del generoso sepolcro imbiancato di turno è un requisito fondamentale, giacché questa tipologia di filantropo pronto ad emendare a destra e a manca con sorriso serafico e buddhesco è la stessa che pretenderebbe di veder immantinente dondolare appeso ad un nodo scorsoio il responsabile della riga trovata sulla scocca del motorino.
Insomma: se sei qualcuno, just do it. Altrimenti, caro Signor Nessuno, non ti resta che ingoiare il rospo e consolarti borbottando come una vecchia zitella sulla malasorte di non essere nell'Olimpo degli Eterni Intoccabili.

venerdì 29 gennaio 2010

BiNbimiNkia, I love you




Gente, abbiamo un problema. Si chiama nuova generazione. E per nuova generazione intendo tutto quello che ha avuto la deprecabilissima idea di venire al mondo dopo il sottoscritto.

Tralasciamo l'assoluta inopportunità di un gesto simile, pari forse solo a quella di un cineforum organizzato dal Kollettivo Kakakazzi durante la settimana di autogestione all'Itis "Giosuè Pascoli con la chiave del 12" dopo la proiezione di un capolavoro di Kubrik. Ma tant'è. Ho imparato infatti che, se c'è proprio una cosa che non puoi fermare, è il ciclo della vita. Anche un Suv giapponese lanciato ai 120 all'ora su un controviale da una madama cotonata della Crocetta con tanto di filippino racchiuso nel cruscotto può dare i suoi crucci, ma è più facile da gestire rispetto al ciclo della vita.

Ad ogni modo, tutto ciò non giova alla speculazione di cui all'inizio. Ho divagato. Dicevo che abbiamo un problema. E anche bello grosso. La nostra illustre civiltà, che in passato ha dato i natali a gente come Giulio Cesare, Dante, Machiavelli, Galileo Galilei, Vivaldi, Garibaldi, Verdi, D'Annunzio, Marconi, Majorana, Fermi, la Montalcini e l'omino baffuto della pubblicità del Tonno Insuperabile, sembra infatti aver toccato il suo apice in un non meglio precisato momento sul finire del secolo scorso (penso all'epoca della pubblicità del tonno), ed essere quindi inesorabilmente destinato ad una precipitosa discesa verso l'Abisso.

E ne vediamo già i segnali. Sono intorno a noi. Sono tra di noi. In alcuni malauguratissimi casi sono nostri parenti. E così come per San Giovanni ad annunciare l'Apocalisse c'erano angeli, trombe, sigilli spezzati e fantini dal look discutibile e dalla cavalcatura altrettanto bislacca, secondo il modestissimo parere di chi scrive ad annunciare l'ineunte decadenza morale e sociale della nostra stirpe ci sono i bimbiminkia (leggasi, in proposito, un'accurata analisi etologica).

Già pericolosa di per se', questa strana specie animale è diventata ancora più perniciosa per l'uomo dal momento in cui è riuscita ad entrare in possesso della chiave per accedere a quello che, nelle intenzioni dei suoi creatori, ma soprattutto nelle mie, avrebbe dovuto rimanere una sorta di empireo per kalokagathòi selezionati dopo schizzinosissima opera di filtraggio: l'Internet.

Si muovono in mandrie numerose e prive dei consueti individui alpha (maschi o femmine, è indifferente), e, giacché palesano ad ogni piè sospinto di ignorare anche le più elementari (ed è proprio il caso di dirlo) regole della grammatica italiana, comunicano attraverso gutturali borborigmi derivati forse da una parafrasi anfetaminica del ceppo ugro-finnico (tvttb, xké, xò, nn, cgil, cisl, uil..), ed hanno progressivamente occupato spazi sempre più consistenti dell'universo digitale, configurandosi dunque non più come caso sporadico di degenerazione sociale da avitaminosi scolastica, bensì come vero e proprio fenomeno pandemico.

Occorre adottare serie contromisure, se non si vuole scivolare nel baratro senza che si abbia più via di scampo. E' un po' di tempo che ci sto pensando, ma non riesco a venirne a capo. Ho riflettuto su varie ipotesi risolutorie, tra cui vorrei qui citare il napalm, l'avvelenamento col nichel della falda freatica cui attingono gli acquedotti che alimentano le scuole medie, la scolarizzazione forzata dei superstiti all'interno di strutture ricettive quali i campi di rieducazione cambogiani, o l'arruolamento di squadroni della morte armati di congiuntivi di grosso calibro e consecutio temporum affilatissime da liberare nei centri commerciali il sabato pomeriggio. Non so. E' solo che mi paiono tutte troppo umane. Si accettano suggerimenti.

lunedì 4 gennaio 2010

Get a life, open your Windows



Il mondo del copyleft mi fa raccare pesantemente. È un fenomeno che, tanto per dare un'idea, mi provoca un voltastomaco pari, se non addirittura superiore, di quello suscitatomi da ciò che fanno le sorridenti fanciulle di questo sito qui. (Avviso ai naviganti: occhio che è roba solo per stomaci forti. Anzi, fortissimi. E pure molto masochisti. Se ne sconsiglia dunque la visione a chicchessia, specie in prossimità dei pasti e in qualunque altro momento della giornata).

Ma torniamo a noi. Poco fa, prima che non ascoltaste i miei saggi consigli e vi bruciaste il dito, mparlando di copyleft, mi riferivo in particolare al sottomondo "open source", quello di Linux, e altra popò similare. (Ommioddìo, ho detto popò. Addio fioretto…).

Facciamo un passo indietro. Il principio del copyleft nasce dalle menti strafatte di marijuana di alcuni programmatori americani post sessantottini che, stufi del dilagante imperialismo che si celava subdolamente anche nelle loro fette mattutine di pankake irrorato di sciroppo d'acero, decisero di promnuovere un sistema di diffusione delle idee e della conoscenza che fosse in netta contrapposizione con quello tutelato dai diritti d'autore. Per essere più precisi, ilconcetto compiva un passo ulteriore: piùl'idea era geniale, più l'innovazione straordinaria, più doveva essere accessibile al mondo intero e anche a quello parzialmente scremato, senz alcun tipo di tutela o riconoscimento per l'ideatore e per il mazzo che s'era fatto in anni e anni di studio e applicazione.

Detto in parole povere: se dipingi la Monna Lisa devi poi condividerla "aggratis" con il mondo, perché è talmente bella da essere patrimonio dell'Umanità intera, e pure dei marziani, ammesso che esistano, quindi scordati qualsivoglia compenso per la tua opera perché tutti quanti debbono poter goderne ad libitum. E soprattutto, è bene ripeterlo, gratis. Quindi a morte i bigliettai del Louvre.

"Sed atque ista magna mentula!"* risponderebbe a questo punto Catone il censore, se la buonanima delll'illustre filosofo fosse ancora vivo. Certo lo esclamerebbe, ovviamente, solo dopo aver esclamato: "Sus meretrix, aere provectus vere sum...". Ma questa è un'altra questione. La cosa importante da sottolineare, a mio modestissimoavviso, è che se io sono Leonardo Da Vinci, e voi una mandria di bovi nutrita a yogurt dietetici e soap opera, dovete cacar quattrini come se piovesse se volete godere anche solo di una briciola del mio immenso genio. E questa è cosa buona e giusta. Altimenti sintonizzatevi di corsa su Canale 5, ché forse fate ancora in tempo a beccarvi Maria De Filippi.

Perché da che mondo è mondo libri, film, fumetti di Madrake, biglietti del teatro, del cinema e del museo, dischi di Little Tony, giornali di donne nude, opuscoli di taglio e cucito e consulti dall'urologo SI PAGANO. Tanto, poco, il meno possibile, a seconda di quel che si riceve, come sarebbe l'ideale avvenisse sempre. Ma si pagano, per dare un "cum quibus" a chi dall'altra parte si è rimboccato le maniche o si è spremuto le meningi per prestarci il dato servigio.

Orbene, i fautori della bizzarra filosofia "arci-liberal" di cui sopra, si sono fatti ormai da tempo alfieri di una campagna, nello specifico anti-Microsoft, (ma potrebbe essere tranquillamente anche anti-MacIntosh, se solo avesse una quota di mercato un filino più estesa), che punta il dito contro il gigante cattivo del computer che priva il mondo dell'accesso libero e bello al sapere informatico, costringendo, così dicono, l'utente medio del computer ad utilizzare macchine obsolete, dotate di programmi vetusti e claudicanti, solo per poter guadagrane più quattrini.

E questo potrebbe anche essere vero. Ma è inutile lamentarsi di un monopolio, o di un oligopolio, se poi dall'esterno nessuno è in grado di presentare un prodotto abbastanza buono e utile da poter scalzare il soggetto dominante dal suo trono dorato, o anche soltanto da poterne scalfire le zampone leonine.

Sono un po' stufo, ordunque, di sentirmi dire che Linux, che ti scarichi tu e ti paciocchi quando e come vuoi, è millanta volte più figo, più veloce, più versatile, più meglio, non prende virus (sfido, è un pinguino, ergo è abituato ai rigori dell'inverno più rigido del globo) del Uindozz Icspì che Memedesimo si è trovato invece già installato sul suo computer quando l'ha acquistato dal ricettatore maghrebino a Porta Pila.

"Piacere - rispondo io - sono Grazia Alcazzo".

Perché anche una normalissima Toyota comprata dal concessionario, se viene poi messa nelle mani di un meccanico con i controfiocchi, riesce a dare pastine ad una McLaren da Formula 1 in una gara di spunto sul quarto di miglio. Ma sta di fatto, nerdissimi amici miei, che se non siete dei maghi della tastiera e del mouse, e soprattutto se avete tanto di meglio da fare per spendere i vostri vent'anni, non riuscirete a cavare nemmeno un decente programma di videoscrittura da queste beneamate piattaforme del piffero.

Quindi non raccontatemi che Linux, o chi per esso, mi rivoluzionerebbe radicalmente la vita, se solo Bill Gates mostrasse la cortesia e il buon gusto di farsi investire dal tram una mattina mentre va a comprare il giornale nell'edicola sotto casa.

Prendete uno come il sottoscritto, Medioman d'assalto come ce ne sono tanti al mondo. Uso il computer per due cose sole: aggiornare il blog, e visitare uno o due siti internet. Ma sono un incapace sesquipedale e un tremendo inetto giàsoltanto se mi si apre a tradimento la pagina di Excel. Per espletare al meglio le mie uniche due funzioni multimediali, quindi, ho bisogno di piattaforme che facciano tutto da sole, compreso accendersi e spegnersi. Compreso il caffè, magari. E che dunque mi chiedano, al massimo, di digitare da solo un indirizzo con un www davanti.

Perché quando al termine di una seduta di autostimolazione dei paesi bassi di fronte alle immagini in streaming della porcella di turno mi capita di non sentirmi completamente soddisfatto preferisco limitarmi a cambiare mano, o al massimo a cambiare porcella, e non mi va di riprogrammarmi il portatile, il citofono, la lavatrice, l'orologio a cucù e il videoregistratore con un software più liberale del mio...

Ps: l’autore di questo post non ha ricevuto da Mr. Microsoft e da Mrs. Apple nemmeno un bigliettino di auguri in occasione dell’ultimo Natale. Tanto per darvi un’idea del livello di riconoscenza di certe persone

Pps: vi avevo detto di non cliccare quel link là sopra, perché era una roba davvero brutta. Vi avevo avvisato, sconsigliato, messo in guardia. Ma voi l'avete fatto lo stesso, perché vi credete i più furbi e coraggiosi del mondo. Non lamentatevi con me, quindi, se ora vi tocca ripulire il parquet del tinello dal vostro vomito. Anzi, andate a dire alla vostra mamma di mettere al mondo un pargolo più sveglio, la prossima volta che si cimenta nella prova

Note (traductio ad sensum):

* "Ma nemmeno per sogno"

** "Acciderbolina, sono davvero longevo..."