martedì 18 dicembre 2012

Tutti buoni a salire in cattedra


La caterva di trombati al concorsone mi fa pensare che finalmente fosse una cosa seria. E i commenti dei trombati, tra il livoroso e l'esterrefatto, circa l'inconcepibile difficoltà dei quesiti, mi fanno pensare che forse stavolta ho ragione.
 
Capisco che l'indovinello con Pamela, Fiona e Gina che prendono il sole a New York in costume da bagno può sembrare effettivamente fuori luogo. Specie se ti lascia con l'interrogativo in sospeso su chi tromba chi e tradisce chi. E sinceramente ero convinto che il famigerato monopsonio fosse uno strumento per misurare la distanza in Parsec tra Alpha Centauri e Barberino del Mugello. Però, al di là di quanto possano sembrare buffi e arzigogolati, si dà per scontato che chi non è in grado di risolvere questi elementari esercizi di logica (logica, eh: non matematica, non fisica quantistica, non ermeneutica bizantina) non sia nemmeno in grado di insegnare come si avvita una lampadina, e pertanto è consigliabile che faccia altro. Tipo imparare ad avvitare le lampadine, e tentare di farne un business.
 
Sì, è vero, la domanda sul monopsonio l'avrei cannata anche io. Ma se per questo io non saprei nemmeno diagnosticare un acetone ad un bambino obeso che si lamenta tenendosi la pancia davanti ad un vassoio di maritozzi con la panna vuoto per tre quarti. E, difatti, quando ci sarà il concorso da primario al Policlinico Gemelli mi guarderò bene dal candidarmi.
 
«Eh, ma non sono mica la stessa cosa». E invece no. Perché insegnare è una cosa seria. Tanto quanto fare il medico. Insegnare non significa spiegare ai bambini cosa ne pensi di Berlusconi, del signoraggio, delle scie chimiche o delle battaglie di civiltà di "Se non ora quando". Insegnare non vuol dire costringere un'intera classe a tenere il ritmo strascicato del più asino anziché esortarla a star dietro al più secchione, con la scusa che bisogna essere equi e solidali tipo il cacao della Bolivia sugli scaffali della Coop. Insegnare è una missione, a metà strada tra un legionario francese nella jungla della Cayenna e un padre comboniano in Africa. Insegnare è una cosa importante tanto quanto aprire una panza con un bisturi per una laparotomia esplorativa.
 
E solo quando tutte queste wannabe-maestrine dalla penna rossa (uomini o donne che siano, beninteso) se ne saranno finalmente rese conto, allora forse potranno davvero cominciare a lamentarsi di non essere pagate quanto, se non un cardiochirurgo, almeno un medico della mutua.

domenica 16 dicembre 2012

Del perché gli hobbit mi fanno schifo



Cominciamo con il dire che gli hobbit sono imbelli cazzoni brutti, bassi, pelosi e sudici. Sì, anche sudici, perché girano scalzi nella mota e abitano malsani tuguri scavati nel sottosuolo nei quali, non avendo gli hobbit le elevate conoscenze ingegneristiche dei nani, probabilmente le feci vengono accumulate tutte sul fondo della parete meno esposta al sole, assieme alle salme dei defunti (e, almeno fino a quando qualcuno non avrà le prove per confutare la mia tesi, sappiate che è questo ciò che fanno gli hobbit delle proprie deiezioni e dei resti mortali dei propri cari).

Nella Terra di Mezzo gli hobbit occupano il gradino più basso nella scala evolutiva, ancora più in basso degli orchetti. I quali uccidono, depredano e razziano perché anelano al caos, mentre gli hobbit non anelano una beata mazza se non vivere pasciuti e ubriachi alle spalle di tutte le altre razze che invece lottano quotidianamente per difendere quello in cui credono. 

Gli hobbit, in sostanza, sono più inutili degli ausiliari del traffico in un villaggio Amish. 

Nel fantasy gli hobbit ricoprono il ruolo che in alcune pellicole pornografiche con trama è riservato a certi sessantenni pingui e col pene piccolo che durante l'atto sessuale tra l'attore e l'attrice principali se ne restano in un angolo della scena a masturbarsi con inusitato vigore, sudando esageratamente con occhi lubrici e pose imbarazzanti (persino per degli intellettuali come gli spettatori dei porno), per poi accorrere nel momento del climax per contribuire alla consueta lordatura finale della protagonista. La quale, comprensibilmente, fatica a celare un'espressione tra l'inorridito e il derisorio. Oltre all'utilità del tutto marginale, dunque, entrambe le categorie condividono la stessa capacità di farti passare la voglia di vedere come va a finire il film.

Nonostante esistano donne hobbit, le famiglie sono per lo più composte da fratelli, nipoti e zii, tipo Paperopoli. Si riproducono, sì, ma sempre rimpiangendo la fortuna delle amebe che possono evitarsi questa gran scocciatura. Perché mentre un elfo per amore sarebbe disposto a rinunciare alla propria immortalità, un hobbit particolarmente in vena di smancerie al massimo rinuncia a vendere la propria sorella a dei carovanieri di passaggio, o si trattiene dal rubare l'ultimo pasto di un moribondo.

Per tentare di farci abituare a questi esseri orrendi, Tolkien ha adottato lo stesso stratagemma che Canale 5 avrebbe poi ripreso anni dopo nei confronti di Barbara D'Urso: siccome nessun essere umano sano di mente guarderebbe mai un suo programma se ci fosse un'alternativa qualsiasi, ivi compresi documentari in lingua originale sull'elicicoltura in Cecoslovacchia, le hanno ceduto in blocco ogni spazio televisivo a disposizione, in maniera da non lasciare scampo al telespettatore. O al lettore, nel caso di Tolkien.

Parliamoci chiaro: se a trovare l'Anello fosse stato un nano, e non un hobbit incline al rachitismo e alla schizofrenia come Gollum, Il Signore degli Anelli sarebbe stato un gradevole romanzetto di 140 pagine di cui due di azione (quelle in cui i nani fanno un culo così a Sauron vilipendendo i suoi poveri resti con una gara a chi piscia più lontano) e 138 di barzellette sconce ed edificanti aneddoti di guerra, massacri e mineralogia. E tante illustrazioni zeppe di rune, ovviamente.

Invece l'Unico Anello è passato nelle mani di un hobbit dopo l'altro, e sappiamo tutti com'e andata a finire.

Un hobbit non ha ideali, non ha ambizioni, non ha prospettive, non ha fede. Un hobbit vive esclusivamente per usurpare con le proprie maleodoranti natiche le terre da pascolo che altrimenti spetterebbero ai cavalli dei fieri Rohirrim. Vive per ingozzarsi fino a scoppiare, per rintronarsi il cervello di erba come un fattone dei giardinetti ma senza i bonghi, e per bere birra sino a rotolare sotto il tavolo in balia del proprio stesso vomito.

Ma attenzione: dopo aver raggiunto il fondo del proprio boccale un hobbit non rutta mai, perché questo lo renderebbe simpatico e gioviale, e quindi sarebbe un nano. Inoltre, se fosse un nano, sarebbe anche in infaticabile minatore nonché un eccellente scalpellino, oltre che un formidabile guerriero.

Invece un hobbit riuscirebbe a far somigliare a un sergente dei Royal Marines anche un obiettore di coscienza con le infradito e la maglietta di Emergency. Al massimo, ma solo se messo alle strette, un hobbit è in grado di sfoderare Pungolo, una specie di spatola da foie gras con un nomignolo decisamente più adatto a un pene che a una spada.

Un hobbit non suscita ammirazione come un elfo. Un hobbit non fa paura come un orco. Un hobbit non provoca immedesimazione come un umano. Un hobbit non ispira simpatia come un nano. Un hobbit non incute soggezione come un mago. Un hobbit non riesce nemmeno a farti esclamare: «E lui che cazzo c'entra?» come Tom Bombadil. Un hobbit, specie dopo un'attenta e puntuale disamina come quella di cui sopra, suscita esclusivamente conati morali. E talvolta anche quelli veri.

Ecco perché odio profondamente gli hobbit.



venerdì 23 novembre 2012

Galeotto fu il bonobo dall'ano fischierino



Una vita intera a difendere l'ambiente. Ad arrampicarti sulle sequoie. A incatenarti ai cancelli delle discariche. A liberare nutrie. A sdraiarti sui binari dove corre fischiando il treno dei veleni. Rinunci alla ceretta per solidarizzare con l'Amazzonia. Ti iscrivi a kickboxing per somigliare al panda. Ti nutri di rugiada e delle incrostazioni di salnitro che fioriscono sui muri della cantina per non interferire con l'ecosistema sofferente.

Sei un'eroina verde fiera e implacabile che neanche Poison Ivy in quei giorni lì. 

Poi un giorno arriva lui.

Al sit-in di Piccadilly per la salvaguardia del bonobo dall'ano fischierino che hai organizzato con le tue amiche del circolo "We love bush" (ma scritto minuscolo, capisciammé) incroci lo sguardo di quel semidio coi dreadlocks che sembra avere occhi solo per te.

Bello come il sole e libero come l'aria, ma lercio e stazzonato al punto giusto da rendere credibile l'incredibile avventura che ti racconta di aver appena vissuto nell'esotica Birmania, da dove ha appena fatto ritorno dopo aver dato alle fiamme i campi coltivati dai quei crudeli contadini che rubano la foresta alle bertucce dislessiche per coltivare del riso di merda e sfamare i loro mocciosi del cazzo. 'Sti negri.

È subito amore. Travolta da un'insolito destino nel grigio asfalto di Birmingham ti concedi a lui come le foglie del ficus ad un temporale estivo. Capisci che è l'uomo della tua vita quando ti aiuta a riscoprire il significato ancestrale del bird watching e ti introduce alla coltivazione ecosostenibile del tronchetto della felicità. Condividi con lui i tuoi sogni, le tue speranze, il tuo passato e le tue battaglie, il tuo desiderio di un mondo più verde dove la foresta pluviale possa prosperare indisturbata senza tutti quei sottosviluppati dell'Africa subsahariana in mezzo ai coglioni sempre lì a chiedere pane e medicine a noialtri che ci battiamo per cose serie. Tipo i millepiedi costretti a ballare la rumba nei circhi delle pulci.

Lui è l'uomo della tua vita. E non come quel tipo ai tempi del liceo che credevi ti amasse davvero perché avevate visto insieme il sorgere del sole e il fondo di una bottiglia di rum sottomarca, e poi il giorno dopo quando se n'era andato perché c'era l'Arsenal in tv avevi deciso che con gli uomini basta per sempre. Lui è diverso da tutti gli altri.

Decidi anche di presentarlo ai tuoi. Quei due cari vecchietti talmente detonati dall'LSD che si sono allegramente scofanati ai tempi del '68 che quando li vai a trovare ti servono il tè nello stesso bicchiere in cui tengono a mollo la dentiera la notte. E a volte la dentiera la trovi ancora lì, proprio sotto il filtro dell'Earl Grey. «Mamma, papà, questo è XXXXX, e noi ci amiamo» fai tu, entusiasta. «Neoprene bitartrato God save the Queen and her fascist regime uàcciu-uariuà» rispondono loro, ancora un po' confusi. Quindi ti chiedono se gradisci del tè. Gentilmente declini, gli occhi traboccanti d'amore. Comunque va tutto a meraviglia. Lui adora loro e loro stravedono per lui. Tutto va a meraviglia, sembra un sogno che diventa realtà.

Il tuo essere donna libera, emancipata e razionalista, però, fa sì che tu non sia certo una di quelle che credono a qualunque fanfaluca. Tantomeno alle favole stile Uoldìsnei. Tipo quelle secondo cui le scie chimiche sarebbero SOLO scie di condensa lasciate dagli aerei in alta quota, o quell'altra secondo cui il cancro al pancreas NON sarebbe curabile con l'ayurveda. Tzè. Tu hai bisogno di prove inconfutabili. Anche nel campo dell'ammore.

Per cui decidi di mettere alla prova il tuo lui. Il suo attaccamento alla causa DEVE essere più forte di quello verso di te, altrimenti sai che non potrai mai trascorrere al suo fianco il resto dei tuoi giorni senza sentirti tradita come donna, come femminista e come figlia della Madre Terra. E allora gli chiedi la prova d'amore definitiva: se davvero ti ama, il giorno del vostro primo anniversario insieme dovrà rinunciare al romantico tête-à-tête in quel ristorantino macrobiotico che vi piace tanto per venire invece con te e le tue amiche del circolo "We love bush" (sempre scritto minuscolo) a liberare i cagnolini patapuffolosi tenuti prigionieri dal laboratorio farmaceutico. Non potete permettere che dai che ti dai alla fine trovino DAVVERO una cura per la distrofia muscolare, eccheccazzo!

Lui accetta senza nemmeno pensarci due volte, con un entusiasmo e una sicumera tali da far impallidire persino il tuo curriculum decennale di ambientalismo militante. Nottetempo, partite, di nero incappucciati, armati di tronchesi e piedi di porco. Liberté, fraternité, egalité pour les cagnoléns, ou la mort! 

È allora che succede l'impensabile. Dietro le sbarre del lager canino non trovate torme di uggiolanti beagles in cerca di coccole e libertà, ma un plotone di bobbies in assetto antisommossa che prima mettono le manette a te (non senza prima averti allegramente manganellato gli stinchi per un buon quarto d'ora con quel tipico sense of humour così british che li rende così irresistibilmente adorabili), e poi si rivolgono al tuo lui chiamandolo «Sir» e facendogli il saluto.

E la tua storia d'amore e militanza finisce tragicamente con un post su TgCom




mercoledì 7 novembre 2012

La notte più lunga


Abbiamo sperato, abbiamo tifato, abbiamo esultato, abbiamo rosicato, abbiamo singhiozzato e alla fine siamo tornati a casa con le pive nel sacco e un debito di sonno da far impallidire quello vero lasciato da Barack Obama in carico agli Stati Uniti d'America.

Ma in fondo va così quando si segue il derby dalla Curva Sud. E il bello della diretta sta nel saper sdrammatizzare con un sorriso e un calembour anche le peggiori batoste rimediate in Coppa Intercontinentale dalla squadra del cuore.

Per chi ieri notte si fosse perso la diretta streaming delle elezioni americane su Right Nation (vergogna) ecco i link per ascoltare in podcast una dopo l'altra le otto puntate di Right Night. Nel frattempo ringrazio di cuore Andrea Mancia, Cristina Missiroli, Simone Bressan, Filippo Nardelli, Michele Di Lollo, Dario Mazzocchi, Federico Punzi, Pietro Salvatori, Umberto Mucci, Stefano Magni, Cristoforo Zervos ma SOPRATTUTTO Domenico Oliva, che da Udine ha messo su i widget nonostante avesse la febbre a 38 (e mi ero pure dimenticato di ringraziarlo, tra l'altro...) perché sono la redazione casalingo-radiofonica migliore con la quale si possa fare l'alba raccontando le disgrazie elettorali altrui.

E soprattutto ringrazio quella novantina di ascoltatori coraggiosi che ci hanno accompagnato, chi più chi meno, dalle 23 fino alle 5 e mezza del mattino. E tutti gli altri che lo faranno ora, in differita.

Gop bless all of us!

RightNight - Parte #1
RightNight - Parte #2
RightNight - Parte #3
RightNight - Parte #4
RightNight - Parte #5
RightNight - Parte #6
RightNight - Parte #7
RightNight - Parte #8

venerdì 12 ottobre 2012

Un premio No Bel



I Premi Nobel per la Pace sono un po’ come le attenuanti generiche nei procedimenti penali: non si negano a nessuno.

Sarà per questo che il comitato norvegese ha deciso di attribuire quest’anno il riconoscimento all’Unione Europea. La stessa che si è distinta negli anni per la scandalosa gestione dei flussi dei migranti, della crisi Yugoslava e di quella del Kosovo, e anche della destituzione con annesso assassinio di Muhammar Gheddafi.

Effettivamente, a giudicare da come l’Ue sta gestendo la crisi finanziaria, un Nobel per l’Economia non era nemmeno pensabile. E, tutto sommato, di premiati non-sense ce ne sono stati a bizzeffe in passato: persino Yasser Arafat (dopo una vita trascorsa a finanziare, sostenere e proteggere il terrorismo internazionale), aveva avuto il Nobel per essersi riscoperto statista sulla via di Camp David.

Certo, per un’istituzione che da 60 anni garantisce la pacifica convivenza di nazioni che si sono sempre fatte la guerra, un Nobel per la Pace sembrava doveroso. Ma quella è l’Uefa, mica l’Ue.

venerdì 5 ottobre 2012

Scaldo il banco o scaldo l'autunno?



Dopo gli operai dell’Alcoa a Roma, dopo i blocchi delle tute blu dell’Ilva a Taranto, ora tocca agli studenti.

Scendono in piazza a Torino e nella Capitale con slogan e striscioni raffazzonati, ripescati dalla naftalina in cui li avevano messi dopo le proteste anti-Gelmini, ma vogliono far sapere che ci sono anche loro ad urlare no al governo tecnico, no a Mario Monti, no ai banchieri, no all’Europa, no alla crisi. E soprattutto no alla versione di latino o al compito in classe di trigonometria, perché contro di loro l’occasione è sempre buona per bigiare scuola.

Ma non è solo folklore. Perché in prima fila ci sono i soliti caschi, i soliti volti coperti, i soliti scudi di legno fatti apposta per cozzare di proposito contro quelli di plexiglass della polizia e dei carabinieri. Magari il grosso dei cortei sarà anche fatto di ragazzini annoiati, ma in prima fila ci sono sempre i soliti: anarchici, antagonisti, black bloc. Quelli per cui ogni occasione è sempre buona per cercare lo scontro.

Anche questo serve ad alzare la temperatura, del resto. Anche questo è autunno caldo.

venerdì 31 agosto 2012

Generazione Pinocchio



Sono fermamente convinto del fatto che se oggi dobbiamo fare i conti con una generazione di trenta-quarantenni disperati che non sanno cosa fare della loro esistenza e si aspettano che ci pensi qualcun altro a risolvere il dilemma al posto loro, è anche perché da troppo tempo si è persa l'abitudine di leggere ai bambini "Le Avventure di Pinocchio". Credo sia un po' come sostengono alcuni psichiatri dell'età infantile, secondo i quali se non si leggono le favole ai più piccoli, questi matureranno con estrema difficoltà il discernimento tra bene e male, giusto e sbagliato, buono e cattivo, e finiranno con l'essere adulti a metà. Ecco, allo stesso modo ritengo che non leggendo Pinocchio ai bambini italiani, difficilmente questi, crescendo, diventeranno degli italiani perbene, ma resteranno soltanto degli italiani a metà.

L'importanza di Pinocchio come testo di educazione civica per le nuove generazioni del Bel Paese è immensa. E parlo del capolavoro di Carlo Lorenzini, detto Collodi, e non di quell'accozzaglia di buonismo low-cost, personaggi inventati e sonore puttanate che è il cartoon di Walt Disney (un uomo di cultura come il Collodi non si sarebbe mai sognato di descrivere nel suo libro una balena mangiauomini, e difatti nella versione originale lui parla di un pescecane). Non per farne per forza una colpa a Disney, beninteso: è solo che Pinocchio è una storia tutta italiana. Qualunque traduzione, qualunque adattamento, finirebbe comunque per snaturarla, per farle perdere qualche pezzo, qualche tassello importante del suo straordinario messaggio di fondo.

Quale? Beh, è molto semplice: Pinocchio è la risposta letteraria all'esigenza espressa da Massimo D'Azeglio all'indomani dell'unità d'Italia, «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Che non significava semplicemente costruire un'identità nazionale comune da Torino a Catania, da Venezia a Reggio Calabria, passando per Parma, Firenze, Roma e Napoli. Non significava soltanto far parlare a tutti la stessa lingua, far cantare a tutti lo stesso inno nazionale, far pagare a tutti le stesse tasse. Significava soprattutto insegnare ad un popolo bambino, un popolo neonato, quello italiano, per l'appunto, che per abbandonare l'infanzia e raggiungere l'età adulta bisognava imparare a crescere assumendosi ciascuno le proprie responsabilità.

Al di là dei sotto-messaggi e delle tante storielle collaterali, infatti, dal serpente che muore di ictus per il gran ridere, al meschino Melampo, al giudice scimmione con gli occhiali senzsa lenti, il fils rouge della storia principale è bellissimo:
«Pinocchio, studia. Va' a scuola, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«Va bene, Pinocchio: allora impara un mestiere. Va' in bottega, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«E allora, caro Pinocchio, vattelappiànderculo».

Ed è proprio lì che va Pinocchio, appiàrselanderculo, attraverso un'escalation di proverbiali cetrioli che raggiunge il suo climax subito prima che il burattino-bambino si renda conto di ciò che deve fare per redimersi, e quindi cessa. E arriva la redenzione.

Il bello di Pinocchio è che non ci sono principesse, cavalieri, re, principi, regine, duchi, marchesi, dame o imperatori. È tutto un susseguirsi di personaggi talmente normali dal rasentare la banalità, sia nel bene che nel male. Persino la Fata dai capelli turchini non è il deus ex machina della storia, e molto più dei suoi poteri magici può il ravvedimento di Pinocchio nello scioglimento della vicenda. Non ci sono supereroi né supercattivi proprio perché la forza di Pinocchio sta nella sua normalità, nel fatto che, potenzialmente, tutti quanti potremmo essere un po' Pinocchi, e per tutti quanti c'è la stessa via d'uscita.

Pinocchio somiglia tantissimo ai piagnoni della Generazione Perduta, o di uno qualsiasi dei tanti movimenti che a scadenze regolari riempiono le piazze e le colonne dei giornali di lamentazioni, rivendicazioni, slogan e proteste senza che a nessuno venga mai in mente di fare qualcosa per cambiare davvero. Pinocchio viene al mondo convinto che tutto gli sia dovuto, e subito. Pinocchio sa bene quali sono i suoi diritti, e sa altrettanto bene come evitare di compiere il suo dovere. Pinocchio ha fame ma vuole mangiare solo la polpa delle pere che Geppetto gli offre, schifando le bucce e i torsoli. Pinocchio si sente sempre una spanna davanti agli altri, ma riesce soltanto ad inanellare una sequela di gesti stupidi e sconsiderati. Ma soprattutto, Pinocchio arriva ad uccidere il Grillo perché detesta più di ogni altra cosa che qualcuno più saggio di lui gli faccia notare che sta sbagliando tutto.

Menomale che i miei coetanei brandiscono Twitter al posto del martello.

martedì 28 agosto 2012

Un rutto vale più di mille parole



Dopo i blitz della Guardia di Finanza da Cortina a Portofino, a caccia di ferraristi con lo ski-pass e capitani coraggiosi con vascelli fantasma sconosciuti al fisco, il governo prepara il dispiegamento delle Fiamme Gialle dietro i distributori automatici delle bevande gassate.

Secondo il libretto rosso del governo tecnico, infatti, dopo il male assoluto della ricchezza personale viene quello del girovita abbondante. Chi vuole dissetarsi bevendo Coca-Cola, dunque, deve pagare l’accisa sulle bollicine voluta dal ministro alla Morigeratezza Gastrica, Renato Balduzzi.

E mentre la comunità scientifica si divide sull’impatto sociale della Cedrata Tassoni, i tecnici decretano che l’obesità dilagante è un peso troppo oneroso per le magre casse dello stato, e va arginata senza remore. Senza contare che tutti questi ciccioni in giro in Italia rischiano di farci fare una magra figura con i tedeschi, che giustamente vanno fieri della longilinea silhouette della loro Cancelliera.

Tempi duri anche per le gare di rutti tanto in voga tra i buontemponi sin dai tempi del liceo: da oggi potrebbero costare una verifica fiscale.

venerdì 24 agosto 2012

Klout, ho un disperato bisogno d'amore




Non abbiamo più alibi, ormai. Klout ha definitivamente smascherato la nostra vera natura di navigatori della rete: disperati narcisisti alla ricerca di quei quindici minuti di celebrità che Andy Warhol ci aveva promesso e nessuno aveva mai voluto darci fino all’avvento di Internet.

A sentire i suoi creatori, Klout dovrebbe essere un misuratore di influenza sul web. Attraverso un misterioso algoritmo (così efficiente che, a quanto pare, constringe i suoi programmatori a cambiarlo una volta ogni due giorni), valuta in una scala da 0 a 100 quanto una persona sia considerata in rete. Dove 0 è Giovanni che grida nel deserto e 100 è il jingle del Pulcino Pio. Non basta avere tanti amici su Facebook, migliaia di followers su Twitter, un sacco di spettatori sul canale YouTube per essere uno con la febbre alta su Klout: bisogna “influenzare”, per l’appunto. Ovvero dire, fare e scrivere cose che spinga gli altri a condividerle, a interagire.

La verità, a giudicare dai commenti degli stessi utenti, è che Klout somiglia più a tutt’altro genere di misuratore, tipo quei righelli portati di nascosto in bagno negli anni delle elementari per cimentarsi in una particolarissima competizione sportiva che non si può dire in televisione. Per questo sta facendo impazzire tutti quanti nella rete, compresi quelli che fingono di non badare al proprio livello di notorietà ma, in fondo in fondo, si sentono un po’ dispiaciuti se il loro numerino magico perde qualche colpo. Insomma, ammettiamolo: siamo stati fregati in tutto il nostro irrefrenabile bisogno di attenzione proprio dal software che invece avrebbe dovuto compiacerci mostrandoci tutta l’attenzione di cui godiamo.

E va beh, pazienza. Facciamocene una ragione. Siamo esseri senzienti che vivono nel costante bisogno di essere amati, apprezzati, sostenuti, considerati. Non è un delitto, in fondo, se ogni tanto ci accontentiamo anche di un surrogato del sentimento, o se integriamo con quello gli affetti veri. Klout è soltanto il nostro modo di gridare al mondo: «Ehi, mamma, guarda: senza mani!» anche a trent’anni suonati, con una famiglia, il mutuo da pagare e la ventiquattrore sotto la scrivania.

E allora grazie Klout, ché non ci neghi nemmeno da adulti l’ultimo giro sulla BMX.

giovedì 23 agosto 2012

L'invasione degli ultraPistorius



Una riflessione peregrina (ma forse non troppo, lascio che giudichiate voi) mi ha attraversato la capoccia oggi, leggendo la definizione che Wikipedia fornisce circa le Paralimpiadi. Cito testualmente: «I Giochi Paraolimpici, o Paraolimpiadi, sono l'equivalente dei Giochi olimpici per atleti con disabilità fisiche». A rigor di logica, dunque, Pistorius, in quanto privo degli arti inferiori dal ginocchio in giù, avrebbe dovuto disputare i Giochi Paralimpici, e non i Giochi Olimpici. Che poi il suo essere non soltanto Oscar Pistorius, ma l'icona Pistorius, porti a voler far gareggiare il mito anziché l'uomo, è un altro discorso. Vengo al punto.

Il dato di fatto è che, al di là della semantica, quest'anno l'atleta sudafricano ha disputato le Olimpiadi come un qualunque altro atleta normodotato. Ed è proprio da qui che parte la mia riflessione peregrina. Partendo dai seguenti assunti: 1) la partecipazione di Pistorius alle Olimpiadi ha indubbiamente creato un precedente, e i precedenti, si sa, sono quelle cose che tengono aperta la porta per lasciar entrare la consuetudine; 2) è ormai appurato che le protesi, nonché il fatto che la sua disabilità lo porti a pesare meno dei suoi avversari, lo avvantaggiano rispetto agli altri atleti; ecco che si arriva alla domanda fatidica. Fatidica quanto brutale. Ovvero: quanto tempo dovremo aspettare ancora prima che in qualche nazione totalitaria si arrivi alle mutilazioni volontarie di questo o quell'atleta per creare "superuomini" da medaglia d'oro?

Riflettiamoci bene. Non è poi una possibilità così fantascientifica.

Per decenni, finché si reggeva in piedi il Muro di Berlino, le nazioni del Patto di Varsavia hanno imbottito i loro atleti (e le loro atlete, soprattutto) di qualunque medicinale e/o aiutino chimico potesse contribuire a migliorarne la struttura fisica e le prestazioni in campo. È sufficiente dare un'occhiata alle foto ingiallite degli anni '70-'80 per constatare che molte delle campionesse sovietiche di atletica avevano abbandonato l'ultimo sprazzo della loro femminilità alla voce "sesso" del loro atto di nascita, e per tutto il resto non avevano proprio nulla da invidiare a Primo Carnera. Chissà poi quanti altri paesi hanno fatto di peggio per molto meno, magari anche solo per veder sventolare la propria bandiera durante la cerimonia di apertura e poco più.

Oggi i sospetti sono tutti incentrati sulla Cina e sugli ultimi potentati comunisti che le gravitano attorno (Corea del Nord in primis). Come ha fatto il fu Celeste Impero, che un tempo poteva aspirare tutt'al più alla a laurearsi campione nel ping pong, a trasformarsi nel giro di appena un decennio in una corazzata olimpica tale da far impallidire persino gli Stati Uniti? Magari soltanto con il duro lavoro, una ciotola di riso al giorno e tanta fede nel Partito, si capisce. Però, il tarlo rosicchia.

Chiunque faccia o abbia fatto sport a livello professionistico non avrà difficoltà a confessare, anche se magari a microfoni spenti, che calarsi di tutto e di più facendola franca ai controlli antidoping non è poi una missione impossibile, e che (forse), in paesi nei quali poter operare controlli affidabili rasenta l'utopia, è una missione ancor meno impossibile. Questo non significa che tutti gli atleti siano dei potenziali dopati: significa solo che, come direbbe Obama, si può fare. Chissà quanti medagliati insospettabili, anche occidentali, persino italiani, senza quella particolare pilloletta o quell'iniezione forse avrebbero assistito la premiazione dalla tribuna. Il caso Schwazer insegna: per come ce l'ha raccontata lui, con un po' di sangue freddo in più e un po' di scrupoli in meno forse sarebbe potuto arrivare a Londra e persino piazzarsi senza destare il benché minimo sospetto.

Ma lasciamo da parte le supposizioni, che, proprio come le supposte, sono soltanto subdole insinuazioni. Il punto è: cosa potrebbe effettivamente trattenere le oligarchie di Pyongyang, o di Pechino, o il dittatore dello Stato Libero di Bananas, dal mutilare volontariamente i loro atleti per portarli sul gradino più alto del podio grazie a protesi sempre migliori, sempre più leggere, sempre più performanti? Magari, anzi, quasi sicuramente con il consenso dell'atleta stesso, disposto a sacrificare un arto, due, o magari tutti, per portare maggior onore e gloria alla propria nazione, o anche solo per portare un briciolo di benessere e sicurezza economica in più a sé e ai propri cari, diventando un eroe in patria e un campione olimpico davanti agli occhi del mondo.

Siamo sicuri che il gioco non varrebbe la candela? Oggi no di certo, visto che l'unica medaglia ottenuta da Pistorius è stata quella al coraggio, alla determinazione e alla simpatia. Ma immaginiamo che fra qualche anno la tecnologia prostetica faccia così tanti passi avanti che nemmeno uno come Usain Bolt riesca a reggerne i ritmi. Immaginate che non si possano sostituire soltanto gli arti inferiori, ma magari anche gli arti inferiori, oppure, perché no?, persino gli occhi (penso ad arcieri e tiratori vari), con protesi in grado di magnificare le prestazioni ben più di quanto non facciano già ora i piedi in carbonio di Pistorius. Non serve un gran sforzo di immaginazione, visto che i ritmi serrati cui il progresso scientifico degli ultimi decenni ci ha abituati non dovrebbero ormai farci stupire di nulla. Bene. Pensate che se esistono persone disposte a mutilare (o a farsi mutilare) solo per far spillare qualche goccia di pietà in più dai questuanti per strada, non potrebbero esistere regimi o governi che non si farebbero scrupoli davanti alla possibilità di fare cappotto nel medagliere olimpico? Io no, sinceramente.

E quindi aspetto. Aspetto che succeda davvero. Perché per quanto mi riguarda ormai si tratta solo di una questione di tempo. Non così poco perché se ne parli ai giochi di Rio, forse, ma, chissà?, a quelli del 2020.

Benvenuti nel conto alla rovescia più agghiacciante nella storia dello sport.

mercoledì 22 agosto 2012

Giustizia sportiva: le coliche finali



Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima sotto forma di tragedia, la seconda sotto forma di farsa. Probabilmente, se il padre del socialismo avesse conosciuto come funziona la giustizia sportiva italiana, si sarebbe dovuto ricredere: qui quando la storia si ripete è sempre e solo come farsa.

Emblematico, in questo senso, il caso dell’allenatore juventino Antonio Conte, condannato in primo grado a 10 mesi di squalifica per omessa denuncia di presunte combine nei match Novara-Siena e Albinoleffe-Siena, quando ancora Conte allenava i bianconeri toscani. Il tutto sulla base esclusiva di accuse mosse dall’ex calciatore e sedicente “pentito” Filippo Carobbio. Accuse, tra l’altro, mai verificate dai fatti, prive di un qualsivoglia appiglio probatorio, e per giunta smentite da tutti gli altri giocatori senesi che avevano sempre sollevato Mr. Conte da qualsiasi responsabilità. Ciononostante, per la giustizia sportiva italiana, che funziona un po’ come i vecchi tribunali della Santa Inquisizione, l’onere della prova ricade sull’accusato, e non sull’accusatore. Basta che qualcuno punti il dito, insomma, per finire in guai molto seri. Così, secondo i giudici di primo grado, l’allenatore juventino, con il suo piglio così dirigista e autoritario, «non poteva non sapere» quello che si stava tramando negli spogliatoi. E tanto era bastato per spiccare una sentenza di condanna.

Ma questo, della farsa, è stato soltanto il primo atto. Il secondo si è registrato stamani, con la lettura della sentenza d’appello: «La Corte di Giustizia Federale presieduta da Gerardo Mastrandrea ha accolto 5 ricorsi di club e tesserati, in alcuni casi parzialmente, contro le sentenze di primo grado emesse dalla Commissione Disciplinare Nazionale in relazione ai filoni del calcio scommesse relativi alle inchieste condotte dalle Procure di Bari e Cremona. Per effetto delle decisioni (...) è stata parzialmente riformata la decisione su Antonio Conte, prosciolto per la gara Novara-Siena, ma squalificato per 10 mesi in relazione ad Albinoleffe-Siena con una rideterminazione della sanzione rispetto alla decisione della Commissione Disciplinare». In poche parole, pur dimezzando l’impianto accusatorio a carico di Conte rispetto al primo grado, ne ha mantenuto il peso della sanzione finale. Raddoppiando, di fatto, la pena per l’unico dei due illeciti contestati rimasto in piedi.

Mister Conte se ne faccia una ragione: la giustizia sportiva in Italia non esiste. Inutile dunque strapparsi i capelli riconquistati con così tanta fatica. Se però esiste una giustizia divina, o per lo meno un destino beffardo a sufficienza da rendere la pariglia alla beffa di una sentenza delirante, potrà tornare a sedere sulla panchina della sua Juventus giusto in tempo per disputarsi la finale di Champions League.

martedì 21 agosto 2012

Il diavolo veste Prada, il vescovo veste Armani, e tu rosichi perché compri soltanto all'Oviesse



Avesse regalato un bel saccoccione svolazzante a qualche barbuto imam della periferia di Milano sarebbe diventato il nuovo eroe della falange radical chic italiota, quella che nemmeno sotto l'ombrellone mette da parte il vecchio hobby di insegnare agli altri come fare beneficenza con i propri soldi. Invece, lo sprovveduto Giorgio Armani ha commesso l'imperdonabile errore di mettere la sua opera a servizio del vescovo di Mazara del Vallo, realizzando alcuni paramenti sacri per la nuova chiesa di Pantelleria.

Apriti cielo. Su Ripubblica, evidentemente in astinenza da foto del culo di Rihanna, e le multiformi scaglie della falange dell'informazione libbbera è stato subito un profluvio di articolesse sprezzanti sull'attaccamento della Chiesa Cattolica a Mammona, allo sterco del demonio e alle laute prebende. Insomma, la solita tiritera di mangiapreti atei agnostici razionalisti decaffeinati con più latte e meno cacao che non esitano un solo istante ad insegnare la teologia alle formiche, solo per il gusto di salire in cattedra.

Perché lo scandalo, signore e signori, è che Sua Eccellenza avrebbe espressamente richiesto al noto stilista piacentino di contribuire con una donazione in favore della diocesi. E lui, facendo per l'appunto lo stilista, e non l'ingegnere, l'architetto o il decoratore d'interni, ha confezionato una tonaca e un set di manutergi vari. Come direbbe il mio caro amico James Hetfield, «so fuckin' what?». O, per chi preferisse la straripante allegria di Giggi er Ricottaro, «e 'sti cazzi nun ce lo metti?».

Rifolrmulo per i più lenti di comprendonio. Un vescovo chiede ad un esponente di spicco di una comunità una donazione per la chiesa, e questo risponde all'invito dando fondo gratuitamente alla propria arte e al proprio talento. Ora fatemi capire: cosa c'è di tanto sbagliato, di tanto scandaloso, di tanto deprecabile? Avesse usato quei soldi (quali, tra l'altro?) per realizzare una casa di accoglienza per gli immigrati africani con i quali in spiaggia tirate sul prezzo per poter sfoggiare alla bocciofila un falso Armani con 10 euro anziché con i 30 che vi chiede, ai vostri occhi sarebbe apparso un uomo migliore, non è vero? O forse avreste potuto suggerirgli almeno altri 100 modi alternativi per soddisfare la VOSTRA coscienza con i SUOI soldi, magari adottando una mezza dozzina di beagle di Green Hill.

Chi può vedere il male in un gesto di generosità, sono i soliti difensori d'ufficio di quel pauperismo d'accatto della Chiesa, quello che dal Concilio Vaticano II in poi ha fatto sì che i luoghi di culto non fossero più gli scrigni della devozione popolare, testimoniata attraverso l'arte e il bello, ma orrendi casermoni consacrati che farebbero ribrezzo persino al gestore di un'autorimessa o di un bowling. È vero che Dio sta in cielo, in terra e in ogni luogo, ma che qualche moralizzatore a mezzo servizio debba impartire urbi et orbi il decalogo della carità cristiana non sta né in cielo né in terra.

Fosse stato per questi imbecilli, convinti di servire meglio Dio spogliandone le case, non avremmo avuto i gioielli del Rinascimento e del Barocco, non avremmo avuto Michelangelo, Caravaggio e Juvarra, e gli unici motivi per visitare l'Italia sarebbero soltanto qualche vestigia romana e l'imponente quantità di gnocca che si raduna ogni estate all'Acquafan di Riccione. Senza nulla togliere ar Colosseo e alla patata, credo saremmo molto più poveri e insignificanti.

Perché la Chiesa non deve essere ricca soltanto per poter fare meglio l'elemosina come, dove e quando piace a voi. Elemosina che tanto i detrattori continuerebbero a disprezzare comunque, dal momento che ritengono ogni prete un mangiapane a tradimento a prescindere e ogni porporato un dittatore in sottana.

Rifletteteci bene, la prossima volta che entrerete in una chiesa, se non altro per prendere un po' di fresco e sfuggire all'insistenza della zingarella che vi chiede un euro. Osservate bene i fronzoli dorati, scolpiti, decorati, cesellati, dipinti o intagliati che vi troverete dentro. E forse (ma forse) vi troverete a constatare con un certo disappunto che quei doni degli Armani di ieri (che magari si chiamavano Orsini, o Colonna, o Della Rovere), ma anche il sacrificio di centinaia poveri contadini che si levavano il pane di bocca per un'edicola consacrata alla Vergine o un crocifisso d'argento hanno fatto molto di più per l'umanità di quanto non abbiano fatto i 15 euro mal cagati per la vostra t-shirt di Emergency.

venerdì 17 agosto 2012

Regno Unito contro Assange. Ovvero: come trasformare un ladro di polli in un martire


Il peggior errore che si possa fare quando si combatte una battaglia è trasformare il proprio nemico in un martire. Perché a quel punto non importa più quale siano le ragioni del conflitto, la posta in gioco, gli interessi da difendere, la legittimità di chi attacca. Contro un martire non si può mai vincere. Anche spuntandola, è sempre una vittoria di Pirro: se tutto va bene, si finisce come minimo rovinati.

Ecco perché la battaglia politico-diplomatica della Gran Bretagna contro Julian Assange e i suoi numi tutelari ecuadoregni è da considerarsi un totale fallimento sotto tutti i punti di vista, e qualunque saranno gli esiti finali di questo estenuante (quanto inutile) braccio di ferro. Londra è riuscita persino a far peggio di quanto non abbia fatto Roma per il caso dei due fucilieri del battaglione San Marco sequestrati dalle autorità indiane. E ci voleva del bello e del buono per fare peggio di una diplomazia prona ai dettami dell’avversario, incapace di far valere le proprie ragioni sotto qualunque profilo, e talmente pusillanime da preferire il sacrificio stillicida di due militari ad una non ben definita ragion di stato.

Julian Assange è diventato un martire senza nemmeno essere mai stato un eroe. E non ha fatto certo tutto da solo, anzi. Lui ci ha messo l’idea, e la capacità di saper sfruttare l’onda lunga del fenomeno Anonymous, delle ipotesi di complotto, del web come “tana liberatutti”. Ha solleticato la pancia della gente, anche di quella che di per sé non avrebbe mai creduto ai complotti, ma che trova più consolante crogiolarsi nelle teorie più strampalate piuttosto che affrontare l’orrore (quello sì davvero pauroso) della realtà. Ha costruito, di fatto, un impero mediatico fondato sullo spionaggio e sulla delazione, spiattellando cablogrammi privi di rilievo e spacciandoli per notizie, rivelando i rumor dei diplomatici alla stregua di un tabloid scandalistico, imbarazzando i governi e le diplomazie internazionali, e talvolta mettendo a serio repentaglio non solo operazioni importanti come la lotta al terrorismo internazionale o all’integralismo islamico, ma anche la sicurezza e l’incolumità di migliaia di uomini e donne impegnati sul campo. Assange non ci ha detto nulla che non potessimo già sapere attraverso i canali dell’informazione cosiddetta “ufficiale”, se non informazioni di così infimo rilievo che non rendono certo un mistero il motivo per cui i canali ufficiali le avevano ignorate. E, come se non bastasse, non ha avuto il benché minimo riguardo per le sue fonti riservate, non esitando a scaricarle senza troppo complimenti non appena le cose hanno cominciato a mettersi male, come nel caso del soldato americano Bradley Manning, una delle poche fonti “succose” di Assange, finito davanti alla corte marziale dopo aver rivelato esposto al mondo intero, nemici compresi, le vite di migliaia di suoi commilitoni.

Ma per riuscire a fare di un ciarlatano un eroe, e di qui un martire, serviva solo l’ottusità dei suoi nemici. E di questa, ahinoi, ce n’è stata a bizzeffe. A cominciare dai mezzi di informazione e dal loro peccato d’orgoglio: con la vista annebbiata dall’improvvisa notorietà di Assange, i giornalisti hanno completamente dimenticato il lavoro di tanti onorabilissimi colleghi che hanno trascorso la propria esistenza andando sul serio a caccia di notizie e sono corsi dietro al Pifferaio di Townsville dando eco a qualunque sua esternazione. Dopo di loro sono venuti i governi, troppo indispettiti e impanicati dal fatto che qualcuno fosse andato a rovistare nella loro spazzatura per prendersi la briga di verificare che cosa quel qualcuno avesse effettivamente pescato.

E, si sa, quando si va nel panico, complice forse anche una notevole coda di paglia, si commettono errori madornali. Come quello di perseguitare un soggetto come Assange non per le sue colpe, ovvero quelle di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale, il diritto alla difesa e gli interessi economici di più d’un paese, ma per qualche assurdo cavillo montato ad arte in malo modo, come l’improbabile accusa di stupro in Svezia, una teoria che fa acqua più di un colabrodo. Un parallelismo, anche se un po’ stiracchiato, si potrebbe fare con il caso delle Pussy Riot in Russia: nessuno, salvo forse qualche sedicente intellettuale in cerca di visibilità, si sarebbe mai schierato con una manica di sciacquette pseudofemministe che fanno irruzione in una chiesa per abbaiare qualche “vaffa” a tempo di musica. Ma se le stesse sciampiste di cui sopra vengono sbattute in galera alla stregua dei terroristi ceceni, allora diventa facile scatenare l’indignazione nazionalpopolare. Adesso che la frittata è fatta, non resta che incrociare le dita sperando che i danni siano i più limitati possibili. Alla Gran Bretagna, invece, non resta nemmeno questa speranza, ma solo la più clamorosa figura barbina della storia contemporanea.

Comunque vada a finire, il Regno Unito passerà per lo zimbello delle diplomazie mondiali. Facendo irruzione nella sede diplomatica di Quito a Londra per prelevare Assange, infatti, gli inglesi si abbasseranno agli occhi del mondo alla stregua di uno stato canaglia. Non facendolo, e limitandosi ad abbaiare davanti al portone di quell’appartamento 3B in Hans Crescent 3, verranno ricordati come gli scalcagnati eredi dell’impero vittoriano, che ieri dominavano il mondo e oggi non riescono a farsi consegnare un ladro di polli da una nazione sudamericana con un sesto della loro popolazione, ed un ventesimo del loro Pil.

giovedì 9 agosto 2012

Schwazer, i forconi e la sindrome di Bambi



Il giorno in cui è stata diffusa la notizia che Alex Schwazer, campione olimpico in carica nella 50 km di marcia, era stato squalificato per doping, c'era una fetta consistente di italiani che avrebbe voluto impiccarlo al pennone più alto, manco fosse il pirata Barbanera. Per poi dopo scuoiarlo, metterlo sotto sale, e sacrificarne i resti al dio azteco della guerra Qegakdkjahgsegcachkthsuhavatl. Persino la frangia italiana di Anonymous, che di recente si sta occupando di tutto tranne che di fare il lavoro di Anonymous, e invece mette il becco ovunque manco fosse lo spin doctor di Daniele Capezzone e Alda D'Eusanio, ha voluto firmare a modo suo la firma nel linciaggio mediatico dell'ex eroe decaduto al rango di caccapupù nazionalpopolare.

Il giorno dopo, quello dell'intervista al Tg1, della confessione in eurovisione, delle lacrime e dell'autoflagellazione pubblica, quella stessa fetta di italiani voleva strapazzarlo di coccole come Topo Gigio, e consolarlo a suon di carezzine sul capino biondo e paterne pacche sulle magre spalle scosse dai singhiozzi e dai conati del rimorso. Dal mostro di Rostov a Bambi, nell'arco di 24 scarse.

A questo punto i casi sono due: o sono io che sono strano, cosa che non mi sento di poter escludere a priori, oppure l'opinione pubblica pullula di teste di cazzo. Sta di fatto che dopo due giorni di questa merda proprio non ce la faccio a sopportare anche la terza puntata, quella dello sdegno comprensivo, e della retorica del ragazzo «cinico e ingenuo» (che, se per caso non ve ne foste accorti, equivale per coerenza a definire uno «sionista e antisemita») che oggi anima gli editoriali della stampa buonista e, diciamocelo, anche un po' bigottona.

Che cosa ne penso io? Ammesso che glie ne freghi davvero a qualcuno, penso che Schwazer sia solo un debole. Non un criminale, non un santo, né un peccatore redento. Soltanto un debole. Con tutto ciò che questo comporta. Vi pare poco? Non lo è. Perché Schwazer non ha scelto di fare il panettiere, il postino, il barista o il professore di matematica. Ha scelto di fare lo sportivo. E lo sport è l'ultimo fenomeno umano dove, seppur sotto forma di allegoria, si palesa in tutta la sua magnifica e inarginabile potenza la selezione naturale: i più forti vincono e si prendono tutto, i gregari si accodano al vincitore sul podio per brillare della sua luce riflessa, e per tutti gli altri sono solo lacrime e stridore di denti, fino all'inevitabile trapasso. Metaforico e allegorico, of course, ma pur sempre trapasso. Per farla più semplice: lo sport è competizione, ergo lo sport ai massimi livelli significa competizione ai massimi livelli. E chi non ce la fa, cade.

È brutto? È ingiusto? È politicamente scorretto? È disapprovato dal Moige? Ma per la miseria, è sport. Chi mai si appassionerebbe ad una mammoletta che si lamenta per il male ai piedi o perché gli avversari lo prendono in giro? Chi tiferebbe per il folle che manda all'aria di proposito la gara della vita, fosse anche per una nobile causa come sensibilizzare i tifosi su questo o quel male del pianeta? Santo cielo, persino gli atleti neri americani che protestavano contro la segregazione razziale hanno sollevato il pugno chiuso soltanto una volta sul podio, dopo aver fatto un culo così al resto del mondo, e non prima. PRIMA hanno vinto, e POI hanno protestato. Perché «La gente vuole solo goal», come cantava sacrosantissimamente il profeta Helios. Perché l'importante è sempre stato vincere, alla faccia di quel grandissimo paraculo di De Coubertin, che se gli atleti lo avessero mai preso alla lettera oggi il record dei 100 metri piani lo deterrei io con un minuto e 45 secondi, una cocacola mezza sgasata in una mano, un doppio cheesburger nell'altra, e la mutanda smollata. Per questo un vero campione oltre al fiato, alle gambe (ma a volte non servono nemmeno quelle, Pistorius docet) e al talento deve avere carattere. Quel carattere che ti serve a reggere la pressione della sfida, a sopportare gli sfottò degli avversari, a capire quando è arrivato il momento di spingere al massimo e anche quando invece arriva il momento di dire basta.

Rispetto a tanti altri atleti, Alex Schwazer ha avuto il coraggio di prendersi le sue responsabilità, anche se mi resta il fiero dubbio che non l'abbia raccontata poi proprio tutta giusta. Sostenere che la dinamica che ci ha rifilato in rassegna stampa faccia acqua da tutte le parti, infatti, sarebbe come dire che Platinette non è proprio una donna. Ma vabbé, accontentiamoci della confessione in diretta nazionale così com'è stata. Rispetto a tanti altri atleti, però, Alex Schwazer non ha avuto il coraggio di essere un campione fino in fondo. E quindi A) giocarsi il tutto e per tutto su quel maledetto asfalto, senza aiutini chimici, e salutare la propria carriera venendo ricordato come l'ultimo atleta morto nel tentativo di difendere a tutti i costi un oro olimpico che amava più di se stesso; oppure B) salutare tutti con almeno due mesi abbondanti di anticipo, annunciando il ritiro per manifesta non-ce-la-faccio-più, e facendo un grande in bocca al lupo ai compagni di squadra, "con un grazie particolare al mio allenatore, alla mia fidanzata, alla mia mamma e al mio sponsor che mi sono sempre stati vicini".

Fine della storia.

mercoledì 8 agosto 2012

Sbiancaneve e lo zingaro di Snatch



L'idea di partenza era buona: trasformare una favola pallosa come quella di Biancaneve (una sorta di velina ante-litteram ammantata di una regalità esclusivamente dovuta alla schizofrenica araldica Disneyana, che deve riconquistare il suo regno facendo valere la sua dote più importante, ovvero essere la più figa di tutte, alla faccia delle femministe brutte, basse e pelose che si pettinano come Germano Mosconi) in un bel racconto gothic-noir-splatter-vieniquichetisbudello. Cacchio, l'idea era così buona che persino i Vanzina sarebbero riusciti a cavarne fuori un filmone da Oscar, anche lo avessero infarcito fino alla nausea di scuregge, puppappèra e malimortaccitua vari.

Invece no.

Rupert Sanders (e già da uno che si chiama come l'orsacchiotto di Stewie Griffin bisognava aspettarselo) ne ha sfornato una via di mezzo tra un monologo fuori sinc di Enrico Ghezzi e l'eutanasia praticata con un seghetto da traforo. Siccome menarla per 127 minuti (che sono poi l'equivalente di due ore e un coito medio, eh) con la storia di «Chi è la più bella del reame? Io, no tu, no, io, no lei, muori, no muori tu» era francamente impensabile, questo genio incompreso (persino da se stesso) del regista ha pensato bene di infilarci in mezzo tutte le copiature (pardon, citazioni) possibili e immaginabili da "Il signore degli Anelli", "Le Cronache di Narnia", "Avatar", "Un jeans e una maglietta" (vedasi a questo proposito il fratello della regina cattiva). Senza contare che ci sono più tempi morti in questo film che ne l'Intervallo della Rai con le pecorelle che brucano sul prato e le rovine greche sullo sfondo. Venendo ai dialoghi, c'è da dire che è stato un bel gesto farli scrivere ai ragazzi in riabilitazione dopo un incidente stradale. In fondo è anche con film come questi che si sensibilizza il pubblico sul pericolo delle stragi del sabato sera.

Ma la cosa peggiore (o migliore, a seconda del livello di masochismo del lettore) sono i personaggi. Che ora andremo sinteticamente a descrivere:
- Biancaneve: È la tizia di Twilight (e va beh...), la sua massima aspirazione artistica può essere solo diventare l'Asia Argento californiana, ha la verve recitativa del mio scaldabagno elettrico e la faccia di chi era andata al Sert a ritirare la propria dose di metadone ma purtroppo aveva trovato chiuso. Limona gente a casaccio senza sapere bene il perché, ed esorta gli uomini alla battaglia finale con un monologo che, più che somigliare a quello di Braveheart, come avrebbe voluto, sembra essere la giaculatoria di una beghina durante una messa di trigesima.
- Il Cacciatore: è lo zingaro di Snatch interpretato da Brad Pitt. U-GUA-LE. È sempre ubriaco, si esprime in modo incomprensibile, però non gli piacciono i coni e, quel che è peggio, non ha nemmeno i soldi per vivere in una roulotte.
- La Regina Cattiva: Si chiama Ravenna. E non faccio battute toponomastiche perché ormai le hanno fatte tutti quelli che hanno recensito il film prima di me. Ad ogni modo è una topa stellare anche con le rughe, e il fatto che debba uccidere della gente per rimanere tale e conservare il suo potere non fa altro che confermare quanto lei sia una persona migliore di voi.
- I Sette Nani: A parte che sono otto, ma poi uno muore e mette le cose a posto. Somigliano ad agricoltori del Midwest (manga loro soltanto il berretto della John Deer e le lattine di Bud schiacciate sulla fronte come ostentazione di virilità), si chiamano come agricoltori del Midwest (uno di loro si chiama Gus), parlano come agricoltori del Midwest (mancano solo gli appassionanti monologhi sul granturco), e hanno la vis comica del ministro Giarda quando si gratta le orecchie.

La cosa migliore di tutto il film è che a un certo punto a metà del primo tempo è partito il condizionatore del cinema (il motore di un vecchio B-25 Mitchell residuato bellico della II Guerra Mondiale riadattato alla bisogna) e il rombo ha impedito di comprendere fino in fondo i dialoghi. Ma temo che questo optional non venga offerto da tutte le sale, solo in quella in cui sono andato io. Se proprio dovete scegliere tra investire 7 euro nel biglietto del cinema o andare in ferramenta comprando l'equivalente in viti, consiglio la ferramenta. Anche ingerendole, le viti sono sempre la scelta migliore.

lunedì 6 agosto 2012

La verità è che non ve ne frega un cazzo



Se c'è una cosa peggiore dell'essere parte di una generazione di cialtroni, e quella di essere rappresentati proprio dai più cialtroni di tutti. Ora, non so se voi nelle ultime settimane abbiate messo il naso fuori da quella cassapanca in arte povera all'interno della quale trascinate le vostre inutili esistenze, ma pare che l'attuale primo ministro abbia definito i trentenni italiani «una generazione perduta». Ecco, non si sa se l'abbia detto veramente o se glie l'abbiano solo attribuito, come ormai è prassi consolidata in Italia. Il fatto, però, è che ha maledettamente ragione. Anche se io, al posto di Mario Monti, più che di generazione perduta avrei parlato di generazione di cialtroni. Perché nel mio vocabolario i perduti sono quelli senza speranza, mentre i cialtroni sono quelli che di speranze ne hanno (magari pochissime, ok, ma ne hanno), il problema è che non frega loro un cazzo.

Già, miei piccoli amici trentenni o giù di lì: la verità è che tutto sommato non ve ne frega un beneamato cazzo. Né della laurea, né del lavoro, né di farvi una famiglia. Perché tanto c'è sempre una giustificazione a portata di mano che potrete sventolare davanti al vostro fallimento: la crisi, Berlusconi, Monti, Draghi, le banche, Berlusconi, il terzomondo, Cassano, Berlusconi, i rettiliani, Maria De Filippi, Berlusconi e anche un po' stocazzo. Prova ne sia che quelli che si laureano in tempo mentre contemporaneamente lavorano otto ore al giorno (perché non si iscrivono su Facebook a pagine di zecche frustrate in cerca di assistenzialismo da prima repubblica) si sposano a 26 anni con un lavoro di tutto rispetto e uno stipendio dignitosissimo con il quale potranno realizzare per loro e per i loro figli tutti i desideri che voi potrete solo scrivere sul diario di Poochie.

E poi arrivano quelli di "Generazione perduta". I movimentisti della domenica che si sbracciano per mendicare un briciolo di attenzione spolverando una retorica da Bar dello sport e dicendo che è arrivato il momento di dire basta. A cosa non si sa, l'importante è dire basta. Il presidente del consiglio dice che la loro è una generazione perduta e questi rispondono che non hanno perso, è solo che non hanno ancora cominciato a giocare. Ma Gesù santissimo: hai trentacinque anni, non hai più uno straccio di capello in testa, hai un lavoro di merda e persino l'esistenza dei lemming è più accattivante della tua, e mi vieni a dire che non hai ancora cominciato a giocare? Si può sapere, di grazia, che cosa accidenti aspetti? Che l'arbitro fischi il 90°? O che il presidente del consiglio di cui sopra faccia un favore al mondo, ma soprattutto a me, mandandoti in miniera a grattare il talco a mani nude?

Che poi uno ci prova anche ad essere accomodante con questa manica di imbecilli, e si va a leggere il manifesto. E poi scopre che non solo aveva ragione da vendere ad incazzarsi, ma avrebbe dovuto incazzarsi di più. È tutto un profluvio di "impegnamoci", "prendiamo in mano il nostro destino", "facciamo la nostra parte", "è il nostro momento", e così via. Scusate, anime sante, ma fino ad oggi dove accidenti siete stati? Avete dovuto aspettare le soglie dell'andropausa perché tra la segatura che riempie gli spazi vuoti della vostra scatola cranica si insinuasse il tarlo del dubbio che forse tutti quanti al mondo hanno uno scopo che va ben oltre l'happy hour del venerdì?

Ma andiamo avanti. Perché si parla di merito, meritocrazia e altre cose belle di quel tipo lì. Con una particolarità, però: nel senso che il "merito" così come lo intendono lorsignori è "quella cosa che fa sì che io lavori e abbia uno stipendio, e poi chissenefrega di cosa so fare o quanto sono capace". Eh già. E poi avete anche il coraggio di mettere al primo punto del manifesto che pretendete rispetto. Ma rispetto per che cosa? Perché riuscite a non scoppiarvi a ridere in faccia ogni volta che vi guardate riflessi dentro l'acqua del water?

La verità, signori miei, è che non ve ne è mai fregato un cazzo di nulla, ma vi vergognate come ladri ad ammetterlo. Quando il vostro mojito ha poco ghiaccio o troppa menta sapete farvi valere, ma quando si tratta di cose serie vi sentite in diritto di aspettare che siano gli altri a risolvere i problemi al posto vostro, mentre voi ostentate discese in campo fittizie che durano quanto un post su un blog. Avete più rispetto persino per i beagle di Green Hill che per le vostre battaglie. E tutto sommato non dovreste lamentarvi, visto che nonostante tutto la vostra sorte è immeritatamente migliore della loro.

Quello che mi fa incazzare non è tanto che non abbiate voglia di fare un cazzo e di conseguenza non sappiate fare un cazzo, ma il pensiero che fra dieci anni potrei anche dovervi pagare il Tavernello con i sussidi presi dalle mie tasse.

Ps: Caro lettore, se per caso ti senti offeso da questo post è solo un problema tuo. Quindi non mi scocciare con i tuoi commenti autocommiseranti per spiegarmi che se sei al 19° anno di Scienze della Metempsicosi Coatta è solo perché sei costretto a pagarti da solo gli studi con l'impiego da fermacarte umano nell'azienda di tuo zio.

martedì 17 luglio 2012

Ciao Clarice, sono tornato



Che poi, diciamo la verità, non me n'ero andato via per davvero. Ero solo scappato su Facebook, questo luogo che attira le attwhore come il miele fa con le mosche, Winnie The Pooh e tutti quegli altri animali sporchi, brutti e fastidiosi. Del resto le ragazze frivole come il sottoscritto si lasciano sempre intortare dai lustrini, dalle luci lampeggianti e dai tasti con su scritto "mi piace". E poi, ma lo dico più sommessamente perché di questo mi vergogno, avevo anche perso la password.

Solo che poi arriva il momento in cui ti rendi conto di aver perso qualcosa di speciale. Tipo il tuo pensatoio (o ballatoio, se preferite) personale, il luogo dove potevi dire tutto quello che ti passava per la testa nella maniera che più ti aggradava, e per giunta con la possibilità di abbindolare ignari navigatori grazie a parole chiave che li attraggono alla maniera delle lampade al neon con le falene, Winnie The Pooh e tutti quegli altri animali sporchi, brutti e fastidiosi. Quali parole chiave? Bah, ad esempio sesso, porno, XXX, Sara Tommasi, Beppe Grillo, scie chimiche, bitartrato di fendimetrazina, e cose così.

Che cosa mi ha convinto a tornare? Lo so che non ve ne frega niente, ma se siete arrivati fin qui senza cambiare pagina disgustati non appena letto il titolo significa che ve la siete anche un po' cercata. La curiosità si paga, e il costo qui è che adesso mi state a sentire senza lamentarvi. Beh, dicevo, che cosa mi ha convinto a tornare: da qualche mese a questa parte alcuni pazzi sconsiderati mi hanno affidato nientepopodimenoche la gestione di una rubrica, "Bla Bla Blog. Il web che straparla", su un quotidiano nazionale, L'Opinione, dedicata, pensate un po'!, al magico mondo dei blog. Ovvero quel posto sopravvissuto allo tsunami dei social network dove si ritrovano i blogger, Winnie The Pooh e tutti quegli altri animali sporchi, brutti e fastidiosi.

Parlare della roba d'altri, peraltro notando quanto essa possa essere così tanto migliore della tua, mentre il tuo povero blog langue solo e abbandonato come un segretario provinciale del Partito Umanista, è una cosa che fa male al cuore. Poi pensi a quante idiozie scrivi abitualmente su Facebook, a quante ne condensi in 140 caratteri per fare il ganzo su Twitter e vedere in quanti ci cascano e ti ritwittano anche, e consideri che tutto sommato era meglio quando ammorbavi i tuoi lettori ben più prolissamente e per una causa più giusta: vedere quanto sale il contatore di ShinyStat e fare a gara con gli amici nerd a chi ce l'ha più lungo. Il numero, ovviamente.

E così eccoci qui. Di nuovo ai posti di combattimento. Per i vecchi lettori (o per il lettori vecchi, ormai, visto il tempo che è passato da quando il blog veniva aggiornato con un po' di costanza) è un benritrovati (risate di sottofondo). Per i nuovi lettori (sì, esistono anche quelli, del resto esistono anche i bonzi che si danno fuoco per protesta), ma anche per Winnie The Pooh e tutti quegli altri animali sporchi, brutti e fastidiosi, vale invece il disclaimer che campeggia in caps lock in fondo alla pagina. E dai che si riparte. Verso nuove mirabolanti sventure.