giovedì 23 agosto 2012

L'invasione degli ultraPistorius



Una riflessione peregrina (ma forse non troppo, lascio che giudichiate voi) mi ha attraversato la capoccia oggi, leggendo la definizione che Wikipedia fornisce circa le Paralimpiadi. Cito testualmente: «I Giochi Paraolimpici, o Paraolimpiadi, sono l'equivalente dei Giochi olimpici per atleti con disabilità fisiche». A rigor di logica, dunque, Pistorius, in quanto privo degli arti inferiori dal ginocchio in giù, avrebbe dovuto disputare i Giochi Paralimpici, e non i Giochi Olimpici. Che poi il suo essere non soltanto Oscar Pistorius, ma l'icona Pistorius, porti a voler far gareggiare il mito anziché l'uomo, è un altro discorso. Vengo al punto.

Il dato di fatto è che, al di là della semantica, quest'anno l'atleta sudafricano ha disputato le Olimpiadi come un qualunque altro atleta normodotato. Ed è proprio da qui che parte la mia riflessione peregrina. Partendo dai seguenti assunti: 1) la partecipazione di Pistorius alle Olimpiadi ha indubbiamente creato un precedente, e i precedenti, si sa, sono quelle cose che tengono aperta la porta per lasciar entrare la consuetudine; 2) è ormai appurato che le protesi, nonché il fatto che la sua disabilità lo porti a pesare meno dei suoi avversari, lo avvantaggiano rispetto agli altri atleti; ecco che si arriva alla domanda fatidica. Fatidica quanto brutale. Ovvero: quanto tempo dovremo aspettare ancora prima che in qualche nazione totalitaria si arrivi alle mutilazioni volontarie di questo o quell'atleta per creare "superuomini" da medaglia d'oro?

Riflettiamoci bene. Non è poi una possibilità così fantascientifica.

Per decenni, finché si reggeva in piedi il Muro di Berlino, le nazioni del Patto di Varsavia hanno imbottito i loro atleti (e le loro atlete, soprattutto) di qualunque medicinale e/o aiutino chimico potesse contribuire a migliorarne la struttura fisica e le prestazioni in campo. È sufficiente dare un'occhiata alle foto ingiallite degli anni '70-'80 per constatare che molte delle campionesse sovietiche di atletica avevano abbandonato l'ultimo sprazzo della loro femminilità alla voce "sesso" del loro atto di nascita, e per tutto il resto non avevano proprio nulla da invidiare a Primo Carnera. Chissà poi quanti altri paesi hanno fatto di peggio per molto meno, magari anche solo per veder sventolare la propria bandiera durante la cerimonia di apertura e poco più.

Oggi i sospetti sono tutti incentrati sulla Cina e sugli ultimi potentati comunisti che le gravitano attorno (Corea del Nord in primis). Come ha fatto il fu Celeste Impero, che un tempo poteva aspirare tutt'al più alla a laurearsi campione nel ping pong, a trasformarsi nel giro di appena un decennio in una corazzata olimpica tale da far impallidire persino gli Stati Uniti? Magari soltanto con il duro lavoro, una ciotola di riso al giorno e tanta fede nel Partito, si capisce. Però, il tarlo rosicchia.

Chiunque faccia o abbia fatto sport a livello professionistico non avrà difficoltà a confessare, anche se magari a microfoni spenti, che calarsi di tutto e di più facendola franca ai controlli antidoping non è poi una missione impossibile, e che (forse), in paesi nei quali poter operare controlli affidabili rasenta l'utopia, è una missione ancor meno impossibile. Questo non significa che tutti gli atleti siano dei potenziali dopati: significa solo che, come direbbe Obama, si può fare. Chissà quanti medagliati insospettabili, anche occidentali, persino italiani, senza quella particolare pilloletta o quell'iniezione forse avrebbero assistito la premiazione dalla tribuna. Il caso Schwazer insegna: per come ce l'ha raccontata lui, con un po' di sangue freddo in più e un po' di scrupoli in meno forse sarebbe potuto arrivare a Londra e persino piazzarsi senza destare il benché minimo sospetto.

Ma lasciamo da parte le supposizioni, che, proprio come le supposte, sono soltanto subdole insinuazioni. Il punto è: cosa potrebbe effettivamente trattenere le oligarchie di Pyongyang, o di Pechino, o il dittatore dello Stato Libero di Bananas, dal mutilare volontariamente i loro atleti per portarli sul gradino più alto del podio grazie a protesi sempre migliori, sempre più leggere, sempre più performanti? Magari, anzi, quasi sicuramente con il consenso dell'atleta stesso, disposto a sacrificare un arto, due, o magari tutti, per portare maggior onore e gloria alla propria nazione, o anche solo per portare un briciolo di benessere e sicurezza economica in più a sé e ai propri cari, diventando un eroe in patria e un campione olimpico davanti agli occhi del mondo.

Siamo sicuri che il gioco non varrebbe la candela? Oggi no di certo, visto che l'unica medaglia ottenuta da Pistorius è stata quella al coraggio, alla determinazione e alla simpatia. Ma immaginiamo che fra qualche anno la tecnologia prostetica faccia così tanti passi avanti che nemmeno uno come Usain Bolt riesca a reggerne i ritmi. Immaginate che non si possano sostituire soltanto gli arti inferiori, ma magari anche gli arti inferiori, oppure, perché no?, persino gli occhi (penso ad arcieri e tiratori vari), con protesi in grado di magnificare le prestazioni ben più di quanto non facciano già ora i piedi in carbonio di Pistorius. Non serve un gran sforzo di immaginazione, visto che i ritmi serrati cui il progresso scientifico degli ultimi decenni ci ha abituati non dovrebbero ormai farci stupire di nulla. Bene. Pensate che se esistono persone disposte a mutilare (o a farsi mutilare) solo per far spillare qualche goccia di pietà in più dai questuanti per strada, non potrebbero esistere regimi o governi che non si farebbero scrupoli davanti alla possibilità di fare cappotto nel medagliere olimpico? Io no, sinceramente.

E quindi aspetto. Aspetto che succeda davvero. Perché per quanto mi riguarda ormai si tratta solo di una questione di tempo. Non così poco perché se ne parli ai giochi di Rio, forse, ma, chissà?, a quelli del 2020.

Benvenuti nel conto alla rovescia più agghiacciante nella storia dello sport.

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